glossario familiare
ovvio il riferimento a Natalia, ma non sono in grado di stilare un lessico, nemmeno familiare senza g, come dico io. un glossario, al massimo. di quelli che si mettono alla fine delle grammatiche di latino e greco, tanto per avere un minimo raggio di manovra.
vorrei scrivere qui espressioni importanti della mia famiglia allargata.
col tempo.
l'ordine, per ora, è rigorosamente sparso.
divertiti ma con giudizio
Mio nonno Gastone morì nel maggio del 1990.
È strano iniziare a parlare di una persona dalla sua morte, ma nel caso di mio nonno, di come io ho conosciuto la sua persona, non è così strano. Perché fin da quando ero piccola, ho sempre avuto la percezione chiara che mio nonno stesse per morire. O meglio, che sarebbe morto. Cosa che succede a tutti, ma a lui, di più, con più certezza. Quando è morto avevo 16 anni, ma da quando ho memoria, lui doveva morire.
Le restrizioni dovute alla sua malattia, il cibo speciale, i divieti, i rischi di infrangere le regole, le conseguenze del suo inevitabile infrangere le regole, erano il ritornello delle mie domeniche fiorentine, delle feste comandate, dei Natali a rischio, delle ricorrenze pericolose come le domeniche da bollino nero sull’A1.
In prima liceo, in terza come si dice ora, andai in gita a Vienna. La prima gita all’estero. Un numero paurosamente alto di giorni fatti di poco sonno, trascinamenti fra musei dove cementare la mia nascente ossessione klimtiana (ma il ben più morboso Schiele stava già facendo capolino dal manuale del Briganti Bertelli), sbronze collettive e amori mascherati ma non troppo.
Mio nonno mi salutò con l’espressione “divertiti, ma con giudizio”. La sua voce usciva pastosa dal letto, lenta, incollata al palato. Ormai non c’erano nemmeno le pessime sigarette N80 (avevo provato a rubargliele qualcuna agli albori della mia carriera di fumatrice, ma erano davvero troppo cattive), nemmeno le torri di cenere che si formavano quando ne accendeva una e poi la lasciava consumare senza aspirare, perché non riusciva più a farlo, ma neanche a lasciare la rabbia di fare qualcosa di sbagliato.
Divertiti. Vai in gita, divertiti. Hai 16 anni, divertiti. Poi ci si ammala, poi tutto finisce, divertiti.
Ma con giudizio. Con discernimento. Senza smettere di essere in grado di giudicare cosa è giusto e cosa è sbagliato.
Giudiziosa. È un aggettivo che mi sono sentita dare spesso, soprattutto dalle persone anziane, soprattutto dal ramo fiorentino. “L’è una bambina giudiziosa”. “Ma lei l’è giudiziosa”. Non preoccupatevi, è una ragazzina con la testa sulle spalle, che non fa sciocchezze, che sa scegliere la cosa migliore. La più opportuna alle circostanze. Un sottile ago tra la massima stima nell’autonomia di scelta, la robusta fiducia nel libero arbitrio di una bambina e il macigno di attribuire a 16 anni doti che nemmeno Kant, con il cielo stellato sopra di me e tutta la banda.
Mi sono spesso divertita a pensare che giudicare in greco è espresso dal verbo da cui viene la parola critica. Sono laureata in storia della critica d’arte, con una tesi su un critico d’arte. Sono ipercritica, su tutto (ma mai quanto su me stessa).
Mio nonno aveva ragione da vendere. “Con giudizio”.
Ma prima mi aveva detto “Divertiti”.
Vivi, fai lei sciocchezze che devi fare in gita a 16 anni. Ridi, come sapeva ridere lui, con quella risata grassa di quando era più giovane. O, meglio, con quel sorriso che gli formava un’altra delle sue rughe fonde. Ridi, come quando gonfiava il lenzuolo del suo letto per farmi fresco le poche volte che ho dormito da loro a Antignano. Io, divertita, vedevo questo paracadute di cotone ricadere giù in un soffio.
Divertiti, ma con giudizio. Forse un ossimoro, un assurdo, se il divertimento è lasciarsi andare. Quasi del tutto, ma, alla fine, zac, il giudizio, che ti lascia il gusto amaro di non esserti divertita fino in fondo. O che, invece, magari ti salva.
mandali altrove
“Ma te mandalo altrove”.
Gentilmente, senza specificare dove, ma altrove. In qualsiasi altro luogo che non sia nella tua vita. Che non sia accanto a te. In un luogo vago e indefinito, perché tu nemmeno devi saperlo dove se ne andranno, tante volte ti venisse la voglia insana di andarli a ricercare.
Strano che questa elegante esortazione venisse impartita da una nonna alle nipoti, mia cugina e io. Una nonna è l’angelo del focolare, è quella che ti incoraggia sospirando ad accettare che nei rapporti di coppia ci sia qualcosa che non va, e che la componente femminile si adatti a capo chino.
Invece no. “Mandali altrove”. Se una di noi esponeva insofferenza di fronte a comportamenti poco consoni (troppo pressanti per mia cugina, inseguita fin dalla più tenera età da innamorati solerti, troppo sordi e disattenti, nel mio caso), mia nonna se ne usciva con il suo “mandali altrove”.
C’è stato un periodo in cui ci confidavamo nel bagno della sua vecchia casa in un condominio fascista, di quelli delle casi popolari anni Quaranta, con le ali laterali tonde, proprio per ricordare il fascio littorio (il geniale architetto simbolista non deve aver pensato agli spigoli del mobilio). Un bagno lungo e stretto come un corridoio, con una finestrella in fondo. Buio, come era tutta quella casa. Lei seduta sul water e io, più agile, su uno spigoloso bidet. Si chiacchierava, si rideva. Avrò avuto dieci anni, ho difficoltà a capire chi fosse l’oggetto delle mie pene d’amore.
E lei, mani in grembo sulle gambe conserte, se ne uscì col suo primo “mandalo altrove”.
E poi mi raccontava di certe cose che non andavano con nonno (di sicuro quelle vere non me le ha mai raccontate, avrà inventato qualcosa con la sua fervida fantasia da manipolatrice), così che io potessi dare qualche assennato consiglio per tenere insieme la coppia.
A pensarci ora, era divertente una nonna (vetusta per me, ma avrà avuto poco più di sessant’anni, ora berrebbe un prosecco dopo lo yoga) che spingeva le nipoti all’indipendenza, anche alla solitudine, piuttosto che ad accontentarsi. E soprattutto la nipote con un senso della famiglia incentrato coriacemente sullo spirito di sacrificio.
E poi, bellissimo, mi ringraziava dei consigli, soprattutto mi ringraziava di essersi potuta sfogare insieme a me. Lei, sempre circondata di amiche e conoscenti, deve essere stata la fonte da cui ho tratto l’idea che ci vuole qualche amica con cui parlare, perché anche se non hai risolto nulla, intanto ti sei alleggerita.
Però “mandali altrove” è rimasto un must. Leggero. Non si può usare quando c’è una vera sofferenza. Va bene per una storia en passant, non per un matrimonio. È un invito soprattutto a dimenticare, a smettere di impiegare energie mentali su qualcuno che non merita.
A mettere distanza. A farsi scivolare le cose di dosso, quella leggerezza che è tanto facile giudicare male.
Mia nonna è un rebus. Ho una lunga visione di lei, perché è morta quando la mia prima figlia aveva un anno (ho una bellissima foto di quattro generazioni intorno a una culla). Tuttavia sono consapevole che il mio sguardo non è vergine, perché è coperto dal racconto di mia madre.
Dietro un essere madre scostante e nervosa, se gratto tra le date, la vedo con un marito che lavora lontano, due figli, pochi soldi e i suoceri in casa.
Dietro le fantasie da fotoromanzo, vedo la voglia di essere più ricca, più elegante: è stata comunque abbastanza testarda da avere un matrimonio sfarzoso nel 1942 (abito lungo e cocchio) e una figlia alla scuola privata delle suore.
Dietro le camminate al santuario della Madonna di Montenero a piedi (con mio nonno in auto, come supporto tecnico), c’era comunque una donna che nel paleozoico se ne andava di casa una settimana all’anno, anche se per accompagnare i malati a Lourdes, o che, con tutti i suoi rosari sosteneva attivamente la donazione degli organi decenni prima che la chiesa lo ammettesse per i credenti.
Forse “mandali altrove” non voleva dire solo staccarsi da partner sbagliati.
Voleva dire “Tutti, tutti quanti, se non li sopporti più, mandali altrove. Poi tanto domani li ritrovi lì, ma oggi stai meglio”.
i soldi sono come le unghie
La zia Adriana di Gastone è stata una donna singolare. Di Gastone per distinguerla dalla cognata, Adriana di Nello. Nel primo caso, però, Gastone non era il marito (come Nello per l’altra), ma il fratello. E già questo potrebbe dare qualche indicazione in merito.
Perché il marito c’era stato, ma c’era stata anche una separazione di fatto ben prima della legge sul divorzio. E c’erano stati altri uomini, più o meno importanti, nella lunga vita della zia. Importanti, ma, evidentemente, non necessarissimi.
Allo stesso modo c’erano state diverse sistemazioni, diversi tenori di vita, diversi gradi di tranquillità. C’erano i periodi pre guerra con le foto sullo sfondo di macchine sfreccianti, tailleur bordato di volpe, sul cancello delle ville dell’Ardenza, quartiere chic di Livorno. C’erano foto di soleggiati giardini di Antignano, con una famiglia americana come dirimpettaia. Ridente boom economico italiano, alla rincorsa di quello US.
Ma ci devono essere stati anche molti periodi con ben poche foto, con il figlio reduce da qualche affare non andato a buon fine. E allora la zia Adriana, bellissima, con gli occhi di un blu violaceo folgorante, rovistava fra gli avanzi delle epoche d’oro e faceva un giro al monte dei pegni. Per un po’ lasciava in custodia gli anni passati e si dava un po’ di respiro.
I soldi son come le unghie, ricrescono.
Ci vuole solo un po’, poi un lavoretto, un affare, un rientro e si riparte. Intanto ci vuole una pezza.
La pezza poteva essere una coppia di orecchini uno dei quali finisce al fratello, che lo monta ad anello (lui lo regalò a mia nonna, lei a mia madre, ora l’ho io, e lo amo più per la sua storia che per la sua foggia, deliziosamente antiquata). Vendite intra moenia.
I soldi sono come le unghie. Non facciamone una tragedia. Oggi ci sono e domani no. Non permettetevi di giudicarmi perché io come dama di compagnia di una vecchia signora ho visto più soldi di tutti voi miserabili pellettieri messi insieme. Quindi oggi chiedo un prestito e poi vedremo.
La zia Adriana davvero potrebbe essere il soggetto di un romanzo alla Vasco Pratolini. Ma anche di una ricerca più austera, a forza di foto, lettere, appunti sui libri. A volte me ne sono arrivati alcuni, eredità simboliche, sufficienti a aprire sprazzi strani sulla sua vita. Per chi suona la campana Mondadori Medusa 1945. Boh.
L’infanzia in guerra. Matrimonio precocissimo e riparatore. Separazione burrascosa. Figli in un orfanotrofio per non orfani. Ricchezza e jet set come accompagnatrice di una signora bene della Livorno ebraica. E del figlio. Leggi razziali e guerra. E lei che resta a fare da vestale a una casa vuota, mentre tutti sono sfollati in campagna.
“Non ho mai preso nulla. C’era gente che svuotava le case e poi diceva che erano stati i tedeschi. Io presi un cucchiaino d’argento per ricordo, ma glielo dissi. Tanto era un servizio scompagnato”.
La ricompensa. L’eredità di una vecchia sola, che si era trovata una specie di figlia.
Una nuova maturità, e ritrovare due figli che erano stati troppo per conto loro. Liti con la figlia, arrabbiata e sprezzante. E per il figlio, dolci per un ristorante brevemente rinomato di Firenze, e qualche aiuto economico.
I soldi sono come le unghie.
a carissimo amico
“Eh?”
Per chi sia vissuto fino a una certa età senza incontri di rilievo con qualche esemplare del mondo romano, non è che questa modo di dire sia di così immediata comprensione.
La stanza era di un grigiore certosino, il cortile centrale e lussureggiante di zucchine in fiore e albicocche e nespole era davvero lontano parente di quelli della Certosa di Calci, non troppo distante; ma non lo si poteva vedere, dalla finestra alta e sbarrata. Esposizione a sud ma senza mai un raggio di sole diretto, grazie al loggiato. Tutto molto bello d’estate, per fumare al fresco, ma da metà settembre in poi una dura prova per ogni barlume di serotonina. Scrivanie bianco ghiaccio, scaffali bianco ghiaccio e armadietti bianco ghiaccio. Appendere qualcosa alle pareti poteva apparire un presuntuoso eccesso di fiducia nel rinnovo dell’assegno di ricerca.
Io arrivavo prima, ero sempre già installata.
“Ho fatto tardi ieri sera, ma sto sempre a carissimo amico”.
Il gelo. È venuto a trovarla un amico e ha fatto tardi? È successo qualcosa a un carissimo amico?
Il buio.
Buio tale che deve aver intuito.
“Sono appena all’inizio. Sto sempre a carissimo amico. Si dice a Roma”.
E certo. A “carissimo amico” vuol dire all’inizio di una lettera da scrivere. L’incipit.
Mi sono innamorata di questa espressione.
Intanto perché ogni volta mi ricorda la mia allora collega e adesso amica e la sua rassegnata contemplazione del ritardo. E anche un lieve senso di “sì, poi lo faccio, ma non mi scassate che c’è altro”.
Perché “a carissimo amico” si dice di un ritardo su una cosa lunga, ma anche più tediosa che difficile.
Fare il cambio dell’armadio, quando si perde tempo con i foulard perché non si ha il coraggio di affrontare i pantaloni che forse vanno ancora ma molto probabilmente no.
Scrivere un testo di sintesi e compilazione, di quelli in cui non ci si deve spremere le meningi, ma mettersi lì e scartabellare.
Fare le relazioni finali di cinque classi, inserire i descrittori delle valutazioni già meravigliosamente descritte da un voto. “Ho fatto la terza che sono 16, ma sto sempre a carissimo amico”.
È un’espressione che mi fa venire in mente un bimbo delle elementari che deve scrivere una lettera, probabilmente più per compito assegnato dalla maestra che per vera esigenza comunicativa. E non ha voglia, quindi si trastulla e all’ora di cena è ancora “a carissimo amico”. Come mio padre che, fra una fila di aste e l’altra, stava un’ora in giardino a giocare col cane.
Chi chiama un amico vero “carissimo amico”? se scrivi una lettera scrivi “Carissima Lucia”, “Carissimo Antonio”. “Carissimo amico” potevano usarlo fra loro Argan e Brandi nelle splendide lettere che si scambiavano, perché era un rimarcare la comunicazione scritta fra due che lavoravano quotidianamente uno accanto all’altro.
Una cosa lunga, un po’ formale, anche un po’ finta, che si fa per dare soddisfazione a un osservatore esterno. Perché io potrei anche prendere i vestiti uno a uno quando mi servono, e i se i pantaloni non mi entrano, li metto da una parte.
Chiamo la mia amica mentre la sala è squadernata dal post tinteggiatura.
“Sì, in abbiamo finito, ma ora va rimetto tutto a posto. Sto a carissimo amico”.
E mentre parliamo per un’ora, continuo a sistemare qualche oggetto, a ritmo lento. Riposante.
mi è sceso dal cuore
Ho avuto un compagno siciliano. Le sue espressioni avevano un sentore esotico, lontano, sia per l’accento che per un modo diverso di forzare la grammatica e la sintassi, tipico delle espressioni colloquiali.
“Mi è sceso dal cuore” lo diceva di quando una persona lo deludeva. Profondamente. Inesorabilmente. Qualcuno che hai portato nel cuore per molto tempo, che hai aiutato, rispettato, per cui ti sei preoccupato. E poi fa qualcosa che ti fa perdere la stima.
Una cosa così grave che esce dal cuore. Non in modo transitorio, ma definitivo. Perché una persona nel cuore ci cresce, ci entra quando è piccolo, quando è un lontano ricordo e poi si evolve annidandosi dentro. Ci vuole tempo a trovare posto nel cuore. A mettere radici.
Scende vuol dire esce. Ma non rende bene il più toscano verbo “esce”. Scende vuol dire anche che cade, che va giù, c’è un’idea di caduta, di tonfo sordo. Se una cosa va giù dal cuore, va sullo stomaco. Diventa un peso, una presenza greve e ostile.
L’amico, il familiare che aveva compiuto un gesto così grave magari non se ne era neanche accorto. Talmente preso nel fare il suo interesse da non vedere la dimenticanza, la sordità ai bisogni dell’altro. Per cui non c’era stata una lite, uno scontro, un bisticcio esplicito, rude, ma in qualche modo chiarificatore. Così teatrale da permettere, in seguito, magari dopo anni, una risata, un riavvicinamento (ma quanto siamo stati cretini).
Scendere dal cuore è un’azione lenta, che avviene poco per volta, fino a che un ultimo gesto fa staccare l’ultima piccola radice che teneva ancora un legame al suo posto. E l’eco di un affetto se ne va, ma non esce, resta lì. Ma non più al posto giusto.
La lentezza è la cosa che ho appreso dalla prima villeggiatura in Sicilia. Non vacanza: in vacanza c’ero già stata con i miei genitori, in un tour de force archeologico, da Agrigento a Piazza Armerina, da Selinunte a Siracusa, a Segesta, a Mozia. Barocco non pervenuto. Ma, per la prima volta con lui, sperimentai la villeggiatura dell’emigrato, che torna a casa, e non può fare altro che ricevere e visitare, mangiare granite e fare confronti, ricordando fatti che io non sapevo e non capivo, per tutta la lingua che mi mancava e per tutto il passato che non avrei mai potuto imparare.
La lentezza di dormire dopo pranzo (una volta mi ostinai a restare sul mare all’ora di pranzo, e, meravigliosamente sola in acqua, capii perché non si poteva fare). La lentezza di rimandare a dopo, a domani, sostanzialmente a mai. La lentezza nel non organizzare, non fare, non programmare. Il fatalismo.
Una notte, già quasi mattina, dopo una serata in discoteca con amici e cugini, seduti davanti a un mare di latte, mi spiegò il suo amore per la Sicilia: bianco e nero, contrasto, inutilità di ogni impegno, risucchio di tradizioni, morte, passione, rancori, sacrifici, ciclo e iterazione, gli stessi giochi dai tempi dei greci, follia, stasi. Morte. Si poteva solo andare via. E solo tornare. Come da una famiglia.
Parole libere e poetiche, poi smentite da un “ma guarda che ero ubriaco”. Profetiche.
Ma in quella vischiosità di mare fra notte e alba capii il senso di “mi è sceso dal cuore”. Si è staccato con un tonfo sordo, ma è sempre lì, solo che ora è solo un peso.
mi spolvero le meningi
“Vedrai, se mi spolvero le meningi, un modo lo trovo.”
Questo modo di dire mi viene da mio nonno Piero, il padre di mia madre.
Pierino detto Piero. Detto, da piccolo, Pierino senza milza, per la capacità di correre a ore senza perdere mai il fiato per le colline della Val d’Elsa, su quella terra rossa e grassa, pettinata come una cartolina.
Senza milza ma con le meningi: ad esempio capace di inerpicarsi per le anse dei torrentelli locali, magari per recuperare fortunosamente un bimbetto lasciato per esperimento su una zattera costruita per gioco (la zattera andava fin troppo bene, e ci vollero sia meningi che fiato per intercettare al successivo gomito del fiume l’amichetto ignaro di tutto).
Ma questa espressione non mi arriva diretta, ma dalla voce di mia madre, come citazione, come esplicita rivendicazione di aver preso da suo padre (e non da sua madre, sia ben chiaro), la capacità di spolverarsi le meningi.
Che non è acume o sensibilità astratta, ma intelligenza applicata, ingegno curvato alla soluzione di problemi pratici, solitamente a sopperire con quel che si ha a qualcosa che manca. Come se le meningi fossero una motocicletta lasciata a impolverarsi in un fienile, ma che, se ripulita, può ancora correre. Robe che non hanno paura di sporcarsi, perché impolverate già sono.
Insomma se mio nonno avesse studiato avrebbe fatto ingegneria non filosofia teoretica.
E mio nonno studiò moltissimo: di quelle che ora sono le elementari saltò la quarta (all’epoca usava non ritenere fondamentali tutti gli anni, il maestro mandò a chiamare il padre di mio nonno per proporgli di passarlo direttamente in quinta; nel dubbio, preventivamente, mio nonno fu riempito di cinghiate – “di sicuro qualcosa avrai fatto”) e poi completò addirittura i tre anni di avviamento. Il più avanti negli studi di tutta la famiglia, fino ai figli.
Ma sapeva spolverarsi le meningi. In casa e nei suoi tanti lavori.
Caposquadra alla metallurgica, una di quelle fabbriche livornesi spianate dalle bombe alleate, lui che vagava nei campi pensando di essere morto, in un fosso fra quattro bombe inesplose.
Camionista. Tutti i carichi sulla Cisa o sulla Futa venivano rapinati da bande di partigiani diventati banditi e i camionisti facevano a metà. Quasi tutti i camionisti.
Operaio a pulire il mare.
Spolverarsi le meningi vuol dire arrangiarsi in modo elegante. Vuol dire prendere quasi a sfida una difficoltà (“Quella borsa lì ‘un la ripari, ci diventi scema per nulla”. “O vedrai, ora mi spolvero le meningi, come diceva nonno Piero, e ti fo un lavorino…”). Vuol dire usare una buona dose di geometria, di abilità a misurare e a sfruttare le massime ampiezze nascoste in stoffe, carta, volendo anche pasta frolla.
Io ho un ricordo concreto di questa capacità. Un giorno i miei nonni portarono me e mia cugina al Parco di Pinocchio, a Collodi. L’ultimo giorno delle vacanze estive, prima di tornare a scuola. Sarò stata in ingresso in terza o forse meglio in quarta, mia cugina, di due anni più piccola probabilmente non avrebbe fatto il primissimo ingresso a scuola l’indomani. L’auto, la mitica 850 grigio topo che ha segnato gli anni della mia infanzia per i suoi imbarazzanti passaggi (“quando vi sposate la copro tutta di fiore bianchi e vi porto all’altare” – altare a parte, sarebbe stato splendido).
Il Parco di Collodi, piccolissimo, ci sembrò una sterminata distesa di sorprese: la balena con lo spruzzo, saltare fra i denti senza bagnarsi ma cercando di sbagliare.
Mangiammo lasagne al forno nella vaschetta di alluminio, forse portate da una rosticceria.
Ma non c’erano le forchette.
E mio nonno raccolse dei legnetti, li raschiò (aveva un temperino?) e costruì una (due, mille) rudimentale forchetta a due rebbi. Forse mancava solo una forchetta e improvvisò questa per sé, ma noi facemmo a gare a chiedere di mangiare con la forchetta inventata.
Naufraghi su un’isola. Avventura e soluzione.
E lui zitto, come sempre, ma col sorriso un po’ più largo sotto il naso lungo, e gli occhi piccoli e tondi più scintillanti del solito.
Io credo che quello sia stato uno dei giorni più felici della mia infanzia. Un giorno “perfetto”. Almeno per come è cristallizzato nel ricordo.
Quando non so fare qualcosa, sento mia madre che invoca mio nonno, ma soprattutto metto in bocca la mentina di quella giornata, di quella soluzione, e rivendico il cervello che gira.
microfono del tramonto
I bambini a volte sono estremamente poetici. Non solo per il libero e smodato uso di metafore (che non sonno di esserlo), ma perché sono poetici nel vero senso della parola, sono poietici. Fanno, creano, nominano il mondo e le sue cose con parole nuove, e lo chiamano alla vita.
In tutto ciò sono anche estremamente comici. E difficili per le nostre lingue addormentate dalle norme del vocabolario.
Lari è un borgo della campagna toscana, in provincia di Pisa. Prime tracce di epoca etrusca. La massima fortuna connessa al castello prigione dei Vicari, sede di tribunale, e ancora segno distintivo del paesino, che si erge sopra la piana. Anche i vicoli aprono scorci struggenti sulla campagna verde, a contrasto col rosso dei muri di mattoni, ma è dal castello che si vede tutto, perfino il mare se è davvero sereno. E, dopo il fiato corto della salita, è in cima al castello che si respira sempre un vento che è stato caldo durante il giorno, ma che a sera è fresco, asciutto, come una copertina di lana, come un bacio su una spalla.
A Lari, ormai da oltre vent’anni, si fa teatro. Il castello (la spianata d’erba che affaccia sui bastioni, la corte interna appicciata di stemmi) è teatro all’aperto. Qualcuno osa recitare senza amplificazione (a voce ‘gnuda), ma il vento tira su le onde sonore come fumo. Se si è in tanti sul palco, con musica amplificata, la soluzione è il radiomicrofono.
Ma se una o due persone recitano in un contesto raccolto (non l’evento principale della serata, magari uno studio presentato a un pubblico amico, alle 8), aiuta il microfono panoramico. Uno, due, microfoni piazzati fissi vicino agli attori o ai musicisti, che aiutano a rafforzare le loro voci, senza nessun ingombro. Si chiamano panoramici perché captano il suono che proviene da ogni parte.
Questo ovviamente un bimbo non lo sa. I tuoi genitori ti tirano su a due o tre anni in cima al castello di Lari, a sentire una storia che va troppo veloce per capirne il senso. Ma la voce è strana, chioccia, poi stridula, a tratti dolcissima. E l’attrice si muove saltellando, rallenta, mima con gli occhi sgranati, e, anche se non ha in mano nulla, tutto si capisce.
“mamma, cos’è quel bastone?”
“un microfono panoramico, per far sentire meglio le parole”.
Sono quasi le nove, di fine luglio. Le ultime luci fanno diventare i capelli di mia figlia quasi rossi, da biondo scuro che sono. O forse sono i riflessi del rosso dei mattoni, su cui a volte camminano quegli insetti minuscoli rossi, che lasciano i segni sui vestiti bianchi di sangallo delle bimbe.
Le giornate stanno già calando, ma non voglio pensare che la mia infinita estate sta già finendo.
L’anno dopo torniamo. Mentre mio marito completa le ultime prove, io e le bimbe ci arrampichiamo a vedere uno spettacolo in castello, una favola triste su un cacciatore.
“mamma guarda, anche lui ha il microfono del tramonto”.
Potrebbe avere più ragione? Il tramonto dal castello di Lari è sempre il mattatore di quegli spettacoli. E’ lui che amplifica tutto.
circonferire
“Circonferire” è la tenerezza.
“Mamma stai ferma che ti voglio circonferire”
“?”
Solo un adulto può pensare a qualcosa di vagamente negativo, per la consonanza mentale con circuire. Mia figlia ha una buona proprietà di linguaggio, ma circuire a cinque anni non lo sa.
Ma qualsiasi adulto quando vede le braccia che si allargano a cerchio e cercano di chiudersi attorno ai fianchi (mia figlia è di statura piccola), capisce subito. Io più di tutti.
In casa aleggia la circonferenza volteggiando dai compiti della sorella maggiore. Parola un po’ astratta. Qualcosa che si chiude intorno? Un bel tondo, via. Meno astratta se diventa un abbraccio.
Se c’è la circonferenza, ci sarà l’azione di fare il tondo. Circonferire.
Sulla logica stringente delle strutture linguistiche nessun membro della famiglia ha mai avuto dubbi.
Circonferire è la tenerezza.
La tenerezza di un abbraccio dato, appiccicato all’altezza che si riesce a raggiungere. Da chi è più piccola, e può crescere quanto vuole, ma rimane sempre la più piccola.
La tenerezza, ora, di continuare a usare un verbo sbagliato, perché è un codice interno, un piccolo ritorno indietro.
La tenerezza struggente di quando lo dice volutamente per regalarmi un abbraccio di accudimento e consolazione. Lei a me. Giocare a tornare indietro, impossibile perché ora è diventata grandissima.
Tanto grande da arrivarmi oltre il petto. Tanto grande da capire quando deve tirarmi su.
“Dai, giochiamo a fare i canestri, ti fa bene.”
E quando butto la palla dentro il canestrino attaccato alla porta, ovviamente, mi circonferisce.
il veleno nelle boccettine
Mi chiamo Irene a causa della nonna materna di mio padre.
Una vecchina che per me si affaccia da una foto in giardino, con una vestina nera a fantasia grigiastra (ma la foto è in bianco e nero di quelle col bordino bianco seghettato) e una piccola crocchia bassa dietro. Mesta anche se sorridente.
Un’altra foto la mostra giovane, camicia bianca e capelli vaporosi, in una crocchia appena appuntata, tipo quadro di Boldini. Il mio stesso ovale e le mie labbra, con una precisione inquietante, da far sorridere Mendel. Tiene un libro in mano, bellissima immagine, considerato che era analfabeta e sapeva fare solo la sua firma, stentatamente.
Fra le due foto un marito fioraio vivaista, alto e con un bel naso imponente. Eternamente giovane perché morto quarantenne di polmonite, dopo un volo in Arno in inverno (pare fosse troppo poco entusiasta delle adunate fasciste). Vedova con quattro figli: due, mia nonna e suo fratello Silvano, entrambi col naso imponente del padre, una minuta come la madre e con la passione manicale per i fiori (Gabbriella con due b) e una che è rimasta con la madre fino alla sua morte.
Tre figlie, le prime due quasi coetanee, a parlottare dei bei giovini di Legnaia.
“Ah, ma come l’è il farmacista! Con qui’ portamento! E quei modini! Gli è sempre gentile. Parla con la voce bassa e il sorriso, sa sempre cosa dare per ogni malanno.”
“Eh, ma ha già trovato chi lo piglia. Dice che si sta per fidanzare con la figliola del Quercioli”.
“Sie, lei è già in parola co’ un altro. E poi, lui non se lo meriterebbe davvero.”
“Davvero. È così gentile, così buono, a volte dà anche a credito. Gli è proprio un giovane ammodino”.
Le sorelle potevano andare avanti a pomeriggi, fra rammendi e altre cianfrusaglie.
“E si vede che il veleno l’avrà messo tutto nelle boccettine”.
Lapidaria nonna Irene.
Bello, bravo e gentile. Kalokagathos che nemmeno un kouros greco.
Ma il suo veleno ce l’avrà anche lui, come tutti.
E se non si vede, l’avrà messo nelle boccettine della farmacia.
Mi è sempre venuto in mente che in effetti farmakon vuol dire veleno, magari per nonna Irene il farmacista era ancora quello che ti vendeva rimedi potenti, non troppo lontani dai veleni, per le cose grosse grosse (per gli altri malanni ci sono rimedi di campagna, che più o meno hanno sempre funzionato e non si devono pagare, nemmeno a credito).
Ora, quando in casa mia sentiamo parlare di una persona bella, e brava, e gentile, e altruista, e elegante… e anche basta, qualcuno se ne esce con “eh, il veleno l’avrà messo nelle boccettine”.
Perché un po’ di cattiveria ce l’abbiamo tutti.
Al più, abbiamo trovato come renderla utile.
liquida
Ci sono dei giorni che mi sento “un po’ liquida”.
Che quando apro gli occhi, prima degli occhi, c’è una specie di lacrima. Ingiustificata.
Ci sono giorni in cui, invece di pensare che ho una bella e grande casa, che ho una casa, che non tutti hanno una casa, che qualcuno la casa l’ha in macerie, vedo una cosa piena di cose inutili, inutilizzate, comprate per capriccio senza il tempo di usarle. Vedo una casa piena di ciarpame e disordine. E avrei anche il tempo di ordinarlo, ma non le energie. E non servirebbe a nulla, se non alle mie future recriminazioni.
Mi sento liquida. Sposto gli occhi qua e là, per tornare al punto di partenza senza cominciare nulla.
Ci sono giorni in cui non vedo una figlia adolescente che sta crescendo e trova la chiave dei suoi discorsi solo con chi si è scelta. Vedo pelle non abbronzata, porte chiuse, musi lunghi e abiti sgraziati, nessun grazie e unghie tinte volutamente male. Vedo troppa differenza fra i miei 15 anni tanto più obbedienti e sottomessi. E soprattutto vedo troppe somiglianze, le stesse canzoni e gli stessi libri, e una strada che vorrei diversa.
Mi sento liquida. Rallento le parole, soprattutto gli attacchi, perché basta un tono per far imboccare il bivio sbagliato, verso un litigio futile. Liquida come camminare nell’acqua bassa, ma su slippery rocks. Duro fatica.
Ci sono giorni in cui non riesco a sorridere di una bambina che sta cambiando. Non riesco a vedere la furia dei suoi capelli scomposti, dell’asciugamano per nascondere la sua nuova bellezza. Vedo solo il caldo di doverla far addormentare in un letto rovente. Di dover rispondere ai suoi dubbi scolastici. Di dovermi districare tra impegni e appuntamenti inconcludenti. Non vedo come dire no e essere allegra.
Mi sento liquida. Gli occhi scorrono sui particolari, con una nota pungente dentro. Niente esce. A volte mi guarda, e io distillo una lacrima solo se vedo i suoi occhi che piangono di dispetto (le sue rare lacrime).
Ci sono giorni in cui non riesco a pensare che ho un bel lavoro, che ho un lavoro permanente, che ho un lavoro vicino a casa, che ho un lavoro conciliabile con la famiglia. Penso che ho un lavoro pagato zero, in un ambiente avvilente, dove quello che ho studiato è più sano se lo dimentico. In cui mi sforzo di programmare una bella lezione con gli occhi che ogni tanto si appannano, per cancellare l’inutilità, e davanti al monitor le immagini si sfuocano, i contorni si sdoppiano come avessi lenti a contatto sbagliate.
Mi sento liquida.
Non sono le lacrime che premono per uscire, come quando sta per piovere ma non riesce a farlo e cinque o sei goccioloni ti ingannano e ti privano del piacere di un temporale.
Non è lo stomaco che schiuma un po’ all’interno, senza fame, con tanta voglia di acqua.
Non sono le mani che ondeggiano in micromovimenti. Che si accentuano se li guardo.
È la voglia di sciogliermi. Di entrare in acqua e non sentire più il peso. Di sentire una spinta che mi tira su. Di abbassare la temperatura dentro un guanto avvolgente, che non fa sentire più nessuno stimolo esterno. Di immergere la testa sotto e sabotare i rumori. Di concentrarmi sul picchiettio di ogni goccia di pioggia o di spruzzi della doccia. Lavarmi. Tornare indietro. Lasciare. Lasciare andare. Sciogliermi. Diventare l’acqua che ho intorno.
Tutti i miei ricordi di felicità hanno l’acqua. L’acqua della barca e della vela. L’acqua delle amicizie. L’acqua dell’oceano e di chi era con me. L’acqua della piscina. Della piscina con i pochi mesi di mia figlia. L’acqua rubata di un bagno di novembre.
Sciogliermi.
Certi giorni sono liquida. Non se ne accorge quasi nessuno.
“Cosa hai? Non mi piaci, sei un po’ così”
“Niente. Sono un po’ liquida”.
Non sempre posso sciogliermi. Allora certe volte ho imparato a strizzarmi. Penso all’interno del mio corpo come una spugna, come un cencio bagnato. E penso di strizzarlo, finché non esce l’ultima stilla di acqua. Intanto taglio la verdura. Intanto sono in fila alla cassa. Intanto mi lavo i denti.
È un modo per andare avanti.
Ma io voglio sciogliermi nell’acqua.
foto di jeremybishopphotography.com
mitocofin
Questa è una parola che ci ha fatto scervellare.
Mia figlia più grande, quando era piccola, a due anni, forse anche prima, a volte si imbambolava nel bagno. Anzi, non si imbambolava, fissava con attenzione le piastrelle marrone dorato con il cui precedente proprietario aveva lussuosamente rivestito le pareti.
A pochi centimetri di distanza, borbottando tra sé, tipo ebrei davanti al Muro del pianto, col dondolio tipico della concentrazione.
“Amore, cosa fai?”
“Il mitocofin”.
Avesse detto “nulla”, sarei stata più tranquilla.
Mitocofin perché? Il mito? Unito a progetti di cofinanziamento col personale universitario?
La prima figlia è stata oggetto di tutte le preoccupazioni del mondo, almeno tutte quelle pensabili per due genitori primipari attempati, senza esperienze di nipoti e affini, con troppo accesso a internet. Il cibo non manca, ma che cibo le stiamo dando? È abbastanza sano? Deve essere allattata a tutti i costi altrimenti al corso preparto mi hanno detto che diventerà la cugina di Freddie Kruger, ma se non basta e deperisce? La vacciniamo per tutto perché crediamo nella scienza, ma se poi avevano ragione i no vax che dicono che i vaccini provocano malattie neurologiche permanenti?
Soprattutto, Mitocofin è un gioco o qualcosa di preoccupante?
“Perché si imbambola?”
“Perché ha sonno, è sveglia da poco o sta per andare a dormire”
“Perché solo qui?”
“Che ruolo hanno le piastrelline quadrate?”
Non c’era uno di noi che chiedeva e un altro che dava risposte rassicuranti. I ruoli si scambiavano in modo ricorsivo.
Soprattutto, this is the question, “cosa vuol dire Mitocofin?”
Sembra quasi il nome di un farmaco, ma solo per assonanza.
Ci sono voluti diversi anni per chiedere a mia figlia cosa fosse il Mitocofin. Non era nulla di che. Era cercare fra le piastrelle un percorso a serpentello dello stesso colore, una specie di giochino elettronico anni Ottanta, ma in versione mentale. Un tecnica di rilassamento.
Il perché del nome? Nessuno. Semplice.
Noi pensavamo alle cose più preoccupanti, e lei stava giocando, stava staccando il cervello dalla conversazione della stanza per stare un po’ in un mondo suo. Come fanno serenamente i bambini.
Boh.
Forse adesso quando guarda per tempi a mio avviso preoccupanti schermi pieni di immagini vuote fa qualcosa di simile.
Fa il Mitocofin.
famoso dentro di me
“Famoso dentro di me” è un’espressione perfetta nella sua sincerità.
Una canzone non la conosce nessuno, e un nuovo amico te ne parla come di una perla rara.
“Ma è famosa”.
“Beh, non proprio. Di quel cantante è una delle meno note, non se la ricorda nessuno”.
“Ah. E’ famosa dentro di me”.
Perché da piccolo te la faceva sentire tuo padre. O perché l’hai scovata in un momento particolare e l’hai risentita decine di volte, pensando che qualcun altro parlasse di te.
E così un racconto. Un film. Un cartone animato sfigato. Un quadro. Un attore la cui carriera non è mai decollata.
Perché non ci sono soltanto i macigni consolidati dal numero, ci sono anche i piccoli miti privati, le reliquie che hanno un posto speciale dentro ognuno.
La perfetta sincerità uscì dalla bocca di un tredicenne silenzioso, diligente nello studio delle discipline scientifiche come nella musica, chiuso nella sua piccola camera dalla scrivania ordinata. Osservatore attento ma di rado capace di sostenere la continua mischia dialettica del padre e del fratello maggiore.
Lapidario e pulito.
Se il fratello era la parola, lui era il numero.
Un enigma. Meglio, una serratura.
Aveva interessi per la musica che io non sospettavo fino a che non entrò al conservatorio. Un gioco elettronico violento, dentro cui nascondersi a ridosso di un lutto. Una bici con cui macinare kilometri. I soliti occhi azzurri. Una discussione su Pavese. Su un quadro di Friederich.
Non lo conoscevo affatto, benché lo abbia visto crescere lateralmente per anni. E poi, come sempre succede, l’ho perso del tutto e all’improvviso. Nessun legame diretto tra noi, niente di non mediato.
Quel film, un terribile flop, è “famoso dentro di me”.
Perché ricordo il film. E ricordo la tv e il salotto. E la discussione e il gusto del gelato di un pomeriggio incastrato nella memoria. E così, a dimostrazione che è vera la mnemotecnica dei loci, ricordo anche quel film.
“Famoso dentro di me” non è solo l’oggetto della conoscenza o del ricordo. È quella pallida buffer zone che lo tiene a galla nonostante il resto del mondo abbia decretato un ruolo di serie B.
È un legame con una cosa che è rimasta viva. Ma nel passato. Ferma.
foto di enriqueflores.es
vendere le mamme
“Oggi si va a vendere le mamme”.
“Ma lui ti vende anche le mamme”.
Se c’è una cosa che non si può vendere è una mamma. Primo, perché se sei suo figlio, non posso venderti tua madre, se mai dovresti vendermela tu. Secondo, perché se sei al mondo, una mamma ce l’hai già. E quindi non ti serve.
Ma se io sono bravo con le parole, se ti mostro che tutto funziona, che puoi fare cose mirabolanti con qualsiasi nuovo aggeggio io abbia messo a punto, allora non solo posso venderti anche tua mamma, me la chiederai a gran voce, perché della mamma si ha sempre impellente bisogno.
Ho passato la mia seconda giovinezza con una sviluppatore software di grande intelligenza e lungimiranza. Abilissimo nel captare le nuove direzioni, nel fiutare cosa poteva avere un balzo di avanzamento. La fase di ricerca e di studio era sempre più lunga di quella di confezionamento. I volumi di migliaia di pagine dei nuovi linguaggi della O’Reilly, con le meravigliose copertine bianche e i disegni di animali, il pitone, le tigri, sempre in giro per casa, in bagno, sul comodino. L’implementazione arrivava in volata, sul filo delle ultime notti. E per conquistare il risultato di una più che vacillante attività commerciale, bisognava allora saper vendere le mamme.
Un po’ imbrogliare un po’ convincere, un po’ illudere un po’ stuzzicare.
Io non ho mai saputo vendere le mamme. Se ho fatto 10, mi vendo per 7. Ho sempre paura che gli altri scoprano qualche imperfezione, così anticipo le critiche, solitamente con una brillante azione di autosabotaggio.
Però ho almeno imparato a riconoscere al volo chi vende le mamme. Parlantina sciolta e latinorum quando serve, presentazione delle complete potenzialità e dimostrazione minuziosa di un piccolo componente. Il ristoratore che ti propone una pasta al pomodoro come fosse il prodotto di giorni di lavorazione. L’elettricista che vuole rifare l’impianto quando il tuo amico ti cambia una presa.
“Mmm. Lui ti vende le mamme. Chiediamo un altro preventivo”.
In vecchiaia, con l’esperienza, un minimo ho imparato a farlo anche io. “Va beh, non gli devo raccontare nulla di nuovo. Solite cose che faccio tutti i giorni. Un po’ di vendita di mamme”.
Non era un impostore. Era un inventore e avrebbe avuto bisogno di un duca cinquecentesco a foraggiarlo senza limiti, facendo finta di credergli quando si metteva a vendere mamme. Forse per un po’ ha trovato qualcosa del genere. Magari sarebbe stato perfetto in ambito universitario, ma non ne avrebbe sopportato la lentezza, la struttura.
Nella sua siciliana pigrizia e inamovibilità, era velocissimo.
È stato veloce in tutto.
Doverne parlare al passato è soprattutto rabbia, per sapere che non c’è più nessuno che possa vedere lo sguardo fanciullesco e divertito di quando scopriva qualcosa di entusiasmante.