Enza

Ci sono alcune donne che sono madri. Prima di tutto, sempre e in ogni caso. Madri in senso quasi filosofico, per così dire, come fossero l'incarnazione di un archetipo, o una carta dei tarocchi: "la madre". Donne che in ogni loro aspetto fanno quello che è il compito primario di ogni madre, nutrono, danno.

Enza è una di queste donne che nutrono. 

Nutre non solo col cibo, che cucina con leggendaria bravura. Nutre con le sue parole, pastose e rotonde, che escono nel suo napoletano vero, coltivato con passione, benché il suo mestiere di attrice le abbia insegnato a parlare in una dizione italiana perfetta. Parole che la circondano come uno scialle nero e caldo, quando si diverte a fare la protagonista alla fine di una cena, raccontando aneddoti della sua vita, mentre le sedie pian piano ruotano attorno a lei per formare uno spontaneo anfiteatro. O con le parole pronunciate a voce bassa, preoccupate o sornione, quando prende qualcuno della compagnia e, come diciamo noi, "lo porta nel confessionale": a metà tra Grande fratello e prete, chiunque capiti tra le sue grinfie in quelle occasioni non potrà tacere un dolore del cuore che lei per prima ha captato, anche nella confusione un po' indifferente di una giornata tra amici. Con la sua voce nutre, ti coccola, ti liscia come fa la gatta coi gattini, e, allo stesso modo, ti acchiappa per la collottola e ti strattona, quando non la convinci con argomentazioni troppo moderne per il suo atavico senso della famiglia, per cui ogni cambiamento è sempre un po' un misfatto. 

Enza è una donna che nutre anche solo col suo aspetto: una mole di chili imprecisata e inarrestabile (vana ogni dieta o prescrizione medica, che dura fino al prossimo fritto), seni su cui sono passati quattro figli, che le somigliano come gocce d'acqua e che ancora le stanno attaccati alle sottane da matriarca. Capelli bianchi e lunghi, portati sciolti, con noncuranza da diva, o raccolti con trecce ritorte, che le rendono l'aria da scolaretta che sempre cova sul fondo dei suoi occhi, celesti e vivissimi, anche ora che sono affogati tra mille rughe e che stentano a vedere, soprattutto cosa non le interessa.

Perché con tutti gli acciacchi dell'età, coi suoi oltre ottant'anni vissuti pericolosamente, Enza cammina male (ma sale le scale di un castello medioevale che levano il fiato ai trentenni), e vede poco, ma abbastanza da cucinare per tutta la compagnia. "Compagnia" non in senso figurato, ma letterale: compagnia teatrale, nella fattispecie. Perché Enza è un'attrice, più o meno dall'età di quattro anni. Nata e cresciuta, sposata e diventata madre, nonna e bisnonna, tra compagnie di attori girovaghi, abituati a spostarsi continuamente, a rendere casa ogni luogo, portandosi dietro qualche oggetto e tante esperienze. Forse è per questo che Enza sa cucinare così bene: perché ha unito alla tradizione della cucina napoletana, che ancora prevale nel suo bagaglio di ricette, sapori e pietanze conosciute in mezza Italia, legate al ricordo di quella messa in scena, o di quel soggiorno, o di quella persona che ha aperto la porta di casa o del paese in un momento di difficoltà. 

Anche quando recita Enza nutre: dà tutto quello che ha, straborda di gesti, di voci sussurrate o urlate, di risate altissime o di pianti. Sale sul palco stanca, lamentandosi del caldo che ha patito nel cucinare supplì per cinquanta persone a fine luglio, mentre succhia avidamente una sigaretta scroccata, e dopo un attimo, eccola che regala energia a piene mani, come un torrente in piena. Nutre. Chiunque sia lì ad ascoltare. Ce n'è per tutti.

Anche il suo modo di cucinare è così: ce n'è per tutti. Per tutti quelli previsti e prevedibili, e per molti altri, di passaggio. La prima cosa che chiede a chi incontra in un qualsiasi raduno della compagnia è: "hai mangiato?", perché è così che fa una brava madre coi suoi figli, si preoccupa che abbiano la pancia piena.

A ogni spettacolo, mentre ripete la parte con l'aiuto di una delle figlie o delle nipoti, Enza prepara viveri per tutti: per gli altri attori, per i tecnici e i musicisti. E per un numero imprecisato di persone che danno una mano ripagati da una cena "di nonna". Alcuni sono figli naturali, altri acquisiti. Mentre incede solennemente verso le scene, la precede una libagione di zuppiere tiepide racchiuse in canovacci annodati, portata riverentemente dal figlio maggiore. Un rito. Una dea madre terra, di quelle descritte nei libri di storia antica quando si parla delle società pre-patriarcali: le vesti nere a cingere la grassa e fertile bellezza, i capelli al vento da menade e strega, e tributi in natura. Un'esagerazione intellettualistica, se non fosse esattamente così. Magari non saranno pani sacri a Demetra ma polpette o caponate, ma l'immagine è esattamente quella.

Enza fa buono tutto: a volte mi sono chiesta che faccia avrebbero fatto attori snob o ballerini pretenziosi di fronte al pasto da contratto costituito non da quanto chiedeva la scheda tecnica, ma da cofane di zuppa di cavolo, o di micidiali frittate di patate. Nessuno si è mai lamentato, molti hanno chiesto il nome dell'artefice e, dopo pochi minuti, stavano a pendere dalle sue labbra, magari organizzando un estemporaneo duetto a fine spettacolo.

La sua specialità, oserei dire, sono i fritti: categoria onnicomprensiva, poiché Enza frigge tutto. La pasta avanzata il giorno prima, ogni tipo di verdura e di carne, con ardite ma consolidate innovazioni. Certe polpette non sono nemmeno identificabili: dentro sembra che ci siano patate, magari spinaci, di sicuro l'immancabile doppia panatura nella farina e nel pan grattato, e, intanto, nell'impresa di carpirne il segreto, già tre o quattro sono finite in pancia.

Secondo me l'apice lo raggiunge coi supplì, fatti secondo la più verace tradizione napoletana: le polpette di riso con dentro il bocconcino di carne. Sa che io li adoro, e mi scioglie il cuore ricordare che ne fece qualcuno apposta per me appena seppe che ero incinta (e sfido qualsiasi dottore a dire che i supplì non siano cibo adatto alle gestanti).

Per fare i supplì fatti bene ci vuole tantissimo tempo, tanti ingredienti, quindi tante pentole da gestire in contemporanea, fino a trasformare la cucina in un antro ribollente, come quello delle streghe di Macbeth (ruolo che, non a caso, recita fantasticamente in una miscela esilarante fatta di Shakespeare e farsa napoletana).

Una pentola col brodo per tirare su il riso, che deve essere colorato con lo zafferano e ben tirato, quasi un po' colloso, che non si sfaldi durante la manipolazione e la frittura. La pentola deve essere abbastanza capiente da consentire tutta la lavorazione, che prevede l'aggiunta, una volta che il riso è pronto, di uova e burro. Una pentola con la carne, cotta nella cipolla imbiondita, e poi accompagnata dai piselli. Due vassoi per comporre i supplì e per rotolarli nella panatura. Terrine con i pezzettini di salame e di formaggio (una provola, o una mozzarella a pasta dura). Almeno due teglie d'olio bollente per la frittura, anche questa lenta e paziente, fino a dare un colore dorato e rossastro.

Già solo l'armamentario necessario è un segno d'amore verso gli ospiti, perché la ricetta comporta anche una sonora lavata di piatti e pulitura della cucina.

Quando tutti gli ingredienti sono pronti, Enza si siede, a gambe larghe sul bordo di una sedia, si appoggia al tavolo e si fuma una sigaretta, anche due. Così nel frattempo il riso rapprende bene, la carne sfuma il liquido residuo e lei recupera le forze per passare alla composizione dei supplì. Si passa una mano sulla fronte sudata, fa mente locale a cosa deve fare ancora e parte. In una mano a coppetta mette una cucchiaiata abbondante di riso, piega un po' le belle dita con lo smalto mangiato dalla cucina (alla fine di tutto ci sarà tempo per rifarsi le mani?) per formare una palletta, che scava e riempie con la carne, un pezzo di salame e uno di formaggio, che va poi richiusa, con altro riso. I supplì di Enza non sono quelli a pera siciliani, sono piuttosto ovoidali, di cinque o sei centimetri di lunghezza. Una volta che l'impasto è finito, passa alla fase, cruciale, della panatura, prima in un filo di farina, poi nel pan grattato, così che la percentuale dei supplì che si rompono come accade a qualsiasi mortale tende pressoché a zero.

 

Enza ora è davvero vecchia. Ci vede meglio, dopo un’operazione, e questo le ha dato nuova forza. Ha lasciato alle figlie il compito di cucinare per tutti, ma non cede di fronte alle occasioni importanti, le lasagne di Natale, per esempio. Poco importa quanta besciamella finirà per terra. Vale la pena pulire, come si potrebbe dirle di no? Sarebbe una coltellata. Ha ceduto sui capelli corti, ma non al divieto di fumare.

Per la prima volta l’ho vista silenziosa, appartata, muta, isolata da tutti, disinteressata al cibo, alle chiacchiere, perfino alle sigarette. Aveva in braccio il suo ultimo, microscopico, neonato bisnipote. Basta. Non c’era bisogno di nient’altro, e lei non c’era più per nessuno. In quel momento me la sono immaginata in un lampo madre per la prima volta a nemmeno vent’anni, e poi di nuovo, e di nuovo, e di nuovo ancora, col figlio dell’amore, come lo chiama lei, a quaranta (e pensare che spesso ora a quaranta si fa il primo, lei si sentiva quasi in dovere di scusare le imprevedibili conseguenze della passione per il venerato marito!). 

Una montagna nera che respira nello stesso respiro di un fagottino bianco di pelle, di capelli e di abitino estivo. Niente altro al mondo.

 

[2017]

Enza Barone (alias Raffaellino), attrice  

8 luglio 1930 - 23 febbraio 2022