Gabbriella

Gabbriella

 

Se qualcuno della mia famiglia leggesse una ricetta che mi deriva dalle mie zie Elia e Gabbriella, probabilmente si metterebbe a ridere. Perché la vulgata vuole che le due signore, in realtà zie di mio padre, quindi ormai vicine a un’età che definire anziana è eufemismo, non siano mai state da annoverarsi tra le grandi cuoche. Addirittura, l’una, Gabbriella, con due b, la maggiore dei quattro figli della bisnonna a cui devo il nome, sembra che nella sua vita non abbia mai cucinato. La sopravvivenza di un corpicino di un metro e mezzo per 45 kili, abiti compresi, pare sia da attribuirsi prima alla madre, poi alla suocera, poi al marito – lui sì grande cuoco, famoso per un lentissimo e odoroso brasato-, per ridursi a trentacinque anni di non cucina di una interminabile e prematura vedovanza, risollevata ultimamente dalla dolcezza di una titanica badante ucraina.

Tuttavia, dalla mia tarda infanzia emergono ricette datate proprio al periodo in cui nella sua casa, gelida per risparmiare sul gas, pulita fino allo sfinimento (un meraviglioso piatto-tavolo turco di rame brunito sfavilla arancione appeso al muro di cucina, in attesa che qualcuno lo lasci finalmente in pace), cucinava lei. O meglio, si nutriva quanto più possibile non cucinando. Zia Gabbriella pare sia vissuta anni a forza di bietole lesse, lavate, per non sporcare l’acquaio di cucina, all’acqua gelida della pila da giardino (e tutti sanno quanto a lungo vada lavata la bietola, che nasconde sempre granelli di terra nelle rughe delle sue foglie ritorte). Di stracchino e prosciutto crudo mangiato dal foglio (il colesterolo era folle, in effetti). Di minestroni e uova lesse, qualche fetta dell’eterno pane di campagna, ma non più quello buono di una volta, quello di ora, sciocco e senza sapore, avvilito dal lievito istantaneo, che dopo un giorno lo rende duro e fragile. Di mele cotte, necessario rimedio agli ovvi risultati di una dieta del genere. Poi, se mia nonna scendeva le scale con una qualsiasi pietanza, Gabbriella sfoderava un mirabile appetito, che, a voler esser malevoli, si sarebbe anche potuto chiamar fame. Così pure, il suo stomaco, evidentemente sanissimo, ai pantagruelici pranzi di Natale di mia madre, riusciva a dilatarsi senza problemi, per incamerare uno di tutto, con la tecnica dei cammelli che si riempiono di acqua quando la trovano.

Eppure ogni volta che entro nella sua cucina, ora un’inquietante galleria di santini delle pro-pro-nipoti, le mie figlie, dalla nascita al momento presente, affastellate come ex voto al santuario della Madonna di Montenero, non posso fare a meno di ricordare la sua limonata.

La limonata, si dirà, non è una ricetta; ma per me quella limonata era frutto di una ricetta sapiente e scrupolosa. Perché oltre all’acqua lievemente frizzante (ora sospetto fosse una di quelle acque saline che i medici prescrivono poco romanticamente per aiutare l’intestino), al limone spremuto, c’era una fettina di limone infilata nel bordo del bicchiere. E qui sta la ricetta. Il bicchiere. Non era il bicchiere che si dà a una bimba, ma un lungo e pesante tumbler da whiskey, di quelli col fondo pieno, con una bolla in mezzo. E a casa di zia Gabbriella tutto si poteva rompere e nulla andava toccato, ma se volevo la limonata, mi spettava anche il bicchiere da grandi.

Il limone. Il limone veniva appositamente colto da una pianta di limoni, florida nel suo enorme vaso di cotto dell’Impruneta. Uno di quei limoni grandi, con la buccia spessa, che non so se solo nella mia famiglia o in tutta la Firenze del Novecento venivano chiamati “canaroni”. La zia lo sciacquava fuori e lo rotolava premendo sul marmo della pila, per far venire più succo. E, di nuovo, le piante del giardino di zia Gabbriella, un delirante accrocco di piante in vaso, che si affastellavano fino a eliminare l’erba, che ormai non veniva più nemmeno seminata, erano intoccabili. Tranne che per me.

Il regno della zia era il giardino. Quella donnina che pareva sempre reggere l’anima con i denti, era l’unica in grado di movimentare vasi pesantissimi (ruotandoli per terra, quasi senza sollevarli mai) per trovare l’esposizione migliore al sole in un giardino rovente di cemento d’estate e gelido d’inverno, per metà avvolto dall’ombra eterna di un abete enorme, cresciuto a dismisura oltre i tetti e pericolosamente vicino ai muri di confine. A quell’epoca, ma per molto tempo ancora, amici e conoscenti le portavano le piante quando andavano in ferie, o quando le vedevano in fin di vita, e lei le risollevava. Mai donna così aliena dal prendersi cura di esseri umani è stata così caritatevole col regno vegetale.

Acqua, limone, e tre foglie di menta. E anche la menta veniva colta, da una pianta enorme, che lottava invano con quel meraviglioso infestante che il genio del vocabolario toscano ha ribattezzato “miseria”, proprio perché cresce dovunque, sovrasta ogni semenza e sembra non patire mai né caldo né freddo, adattandosi come solo la miseria sa fare.

Acqua, limone e menta, nel bicchiere dei grandi. E la cannuccia con la pallina. Benché la sua casa sembra non abbia mai accolto un pranzo, almeno dopo la morte delle zio Mario, Gabbriella aveva serviti di ogni ordine e grado, piatti, piattini, scodelle e scodelline, oltre a una batteria di ninnoli che spaziava dal cavatorsoli, alla mandolina, ai bastoncini da fonduta. E un set di sei cannucce trasparenti di plastica, con una pallina di diversi colori in fondo. Credo si trattasse di una di quelle fantasie anni Settanta oggi dal sapore un po’ fantozziano, che servivano per girare i cocktail (anzi, i cocktails). Di sicuro ora non saranno più a norma CE, avendo il legislatore seguito l’intuizione terrorizzata di mia madre, che ogni volta si raccomandava che non mettessi la pallina in bocca, ma la lasciassi sempre sul fondo (il che, ovviamente, non era fattibile per una bimba di sette anni; e, di fatto, le palline si staccavano…). Le cannucce, ça va sans dire, si lavavano e si riusavano.

Quella limonata era per me l’ingresso nel regno della zia, il viatico per prendere possesso del giardino, dove ho scempiato infinite rose e camelie, dai petali spessi e turgidi, che si possono piegare e ripiegare come un origami fino a ottenere un disegno. Soprattutto le mie minestre di fiori erano a base di ortensie, la vera specialità della zia, piante solo in apparenza resistenti, ma in realtà fragilissime, che solo nel suo giardino splendevano più che a Trinità dei Monti in maggio. Non è capitato una volta sola che l’amica padrona dell’ortensia sofferente abbia deciso di lasciarla alla Gabbriella in affido perenne, ormai rassegnata che solo in quel modo, con cure continue da maestro di bonsai, la pianta avrebbe trovato pace. Ma, se mi avvicinavo a certe ortensie, pronta a piluccare interi boccioli, la zia mi fermava al grido di “Lascia stare, quella l’è l’ortensia della Fiorenza, quella rosa l’è della Marisa, e quella bianca sta qui finché la zia Adriana non torna dalla Consuma. Quelle lì tu ‘un le tocchi”. Per il resto, via libera.

L’evento più importante era la preparazione dell’acqua di San Giovanni, la vigilia del 24 giugno, meravigliosa sovrapposizione cristiana su culti pagani del solstizio d’estate; acqua piovana e tutti i fiori del giardino, poi di notte passa San Giovanni, ma a volte anche le fate (dipendeva dagli impegni di San Giovanni?), e la mattina ci si lava il viso dalla bacinella, con quest’acqua odorosa e un po’ putrida, per diventar belli. Anche ora che la faccio con gli spelacchiati e raminghi fiori del mio giardino trascurato, ripenso al rigoglio delle ortensie della zia.

La limonata, raramente con un po’ di zucchero, non era alla fine buonissima, ma era un rito, che si doveva compiere, era la mia richiesta alla zia di stare con lei, di aggirarmi per casa, di prendere in braccio il gatto rosso, di giocare sui gradini di mattoncini rossi che legano la sua casa al giardino (“Figliettina, pulisciti i piedi quando passi di costì…”). La fine della limonata, spiaccicando con la pallina le foglie di menta ormai quasi macerate, avveniva quando già mia nonna, dal terrazzo di sopra, chiamava per il pranzo (abituata a mio padre da piccolo, iniziava a chiamare quando buttava la pasta). A quel punto, poteva avvenire l’ultima richiesta: l’ampolla dell’amore. Una magica clessidra di vetro piena di un liquido che, se stretta nel pugno della mano, iniziava a risalire dalla bolla inferiore a quella superiore, zampillando attraverso la strettoia. Un liquido, direi alcolico, che saliva grazie al calore della mano. Basterebbe chiedere alla collega di chimica. Ma io, emotiva come ero (il soprannome di Candy Candy non me lo avevano affibbiato a caso, i miei atroci compagni delle elementari), non avevo bisogno di nessuna legge chimico-fisica per far andare l’ampolla dell’amore a folle velocità. Bastava pensassi all’innamorato di turno, e poi l’emozione del risultato innescava altro amore e altre bollicine.

Ora entro nella casa della zia per visite veloci che devono incastrare pulmini dell’asilo, sonnellini delle bimbe, traffico sulla Firenze-Pisa-Livorno e riposi della zia; e Gabbriella ha ragione a dire che le visite finiscono sempre troppo presto. Ora che vedo una vecchina dal viso finalmente quasi paffuto, coi capelli bianchi e senza quella tintura castano biondo rossiccio, ferocemente definita nella mia famiglia “color menopausa”; con una morbida tuta di ciniglia che le ho regalato, invece che con una gonna di mia madre strettita a sua misura, sopra alle calze di lana nelle babbucce sformate dalla “patata” al piede; quando entro in una casa calda e con un vago e invitante odore di cibo cucinato, capisco come la zia sia diventata vecchia. Sorrido, un po’ rattristata, delle sue battute ancora fulminee, ma ripetute troppe volte, fino a denunciare il motivo di tale raggiunta serenità.

Sono convinta che da qualche parte, in quella casa dove non si è mai buttato via nulla, troverò anche le cannucce con le palline. E magari anche l’ampolla dell’amore.

 

Gabbriella Sarti Dolis

2015