cinema, televisione, teatro e musica
Dittico di formazione, TeatroInBiliko, Progetto die Bildung. Alte luci di Valeria Fenudi e Storie di M. di Martina Gori
Teatro di Vicopisano, 11 giugno 2023
Conosco l'attività di teatroInBiliko da molti anni, più o meno da quando conosco Momi. quindi da molti anni. Non sempre ho accettato da scelta di fare un teatro per pochissimi, pensando che il maniacale lavoro di cura (delle regie di Gazzarrini e del corpo delle attrici, degli oggetti di scena, della scrittura) dovesse cercare un confronto più largo con il pubblico.
questo lavoro, però, che vedo dopo anni di interruzione come spettatrice, mi ha fatto notare una grande crescita. non a caso il progetto si chiama Bildung, e la formazione l'ho proprio percepita.
soprattutto nella scrittura.
partendo da alcune foto assegnate alle attrici, queste si sono messe alla prova nella drammaturgia. e non è sempre detto che un buon interprete sia un solido autore. non è che Shakespeare o Pirandello di passano per forza qualcosa per osmosi.
Alte luci è una messa in scena scritta da Valeria Fenudi.
Tre attrici sul palco (Valeria Fenudi, Mohared Barone, Alice Lenzi), tre protagoniste quasi alla pari, due incinte, una comunque creatrice, di fotografie. presenti assenti sul palco, i genitori, i nonni, evocati da abiti e oggetti che escono da una vecchia cassapanca.
non è certo un tema nuovo. ma ho apprezzato la coesione di un testo tenuto insieme da rimandi intrecciati come fili di una ragnatela attorno al tema del venire alla luce. vengono alla luce i figli, ma escono alla luce anche le fotografie. e la luce strobo alla fine ha un senso, soprattutto insieme al brano musicale di Lich Real.
e per la luce strobo ci vuole un teatro. questo intendevo nel dire che TeatroInBiliko doveva confrontarsi con altri spazi.
lo spettacolo continua con la mostra fotografica di Ester Fiunde, la protagonista fotografa, che entra nello spazio degli spettatori esponendo le foto in cui questi sanno identificare momenti di infanzia e personaggi.
storie di M. è un testo per la scena scritto da Martina Gori, che è anche l'unica interprete.
nasce dalla foto di Lee Fridelander Maria, New City, New York, 1978. Maria, la donna della foto, va trovata. e chi meglio della polziia per trovare un personaggio che non si trova?
sfilano davanti a un posto di polizia diversi personaggi tratteggiati con piccoli cambi di accessori di costumi, e con grandi cambi di gestualità e di voce. e soprattutto, almeno secondo me, di registro, anzi di lingua.
la New York che si immagina a attorno a questi personaggi è quella che il pubblico conosce dal cinema, dalla letteratura, da un immaginario collettivo che serve a riempiere il vuoto attorno all'attrice. la drogheria di quartiere della Fruttivendola la vediamo perché questo personaggio ha un registro comico come (e se) è comico Bukowki. La Gatta che parla della sua umana lisciandosi e leccandosi è un personaggio surreale come la Baronessa Dada Elsa von Freytag-Loringhoven, raccontata da Siri Hustvedt in Ricordi del futuro. la Nonna, più rurale, sta tutta nel parlare succhiando una caramella. le testimonianze di questi "caratteri" si intrecciano confermandosi e smentendosi a vicenda, davanti a noi spettatori che siamo seduti al posto del detective a cui è affidato il caso di una donna che è scomparsa. o meglio, che non vuole farsi trovare.
e poi il grande regalo di un brano da La cronologia dell'acqua di Lidia Yuknavich. che ovviamente non ho ancora letto, ma almeno so che esiste. con calma, leggerò anche quello.
l'estate di Lana del Rey
Lido di Camaiore, 2 luglio 2023
questa estate è stata l'estate di Lana del Rey.
confesso candidamente la mia ignoranza. ho sentito questo nome la prima volta quando mia figlia doveva realizzare un ritratto per arte e immagine e ha scelto questo personaggio come soggetto. pensavo fosse una cantante che veniva fuori da Disney Channel, una sorta di Miley Cyrus, per intendersi. nulla si più sbagliato.
Lana del Rey ha ben poco di infantile. evidentemente avevo perso un po' il polso della maturità musicale e non solo di mia figlia. ma mi sono messa in pari.
è venuto fuori un concerto, sorprendentemente vicino. al festival organizzato da Bussola Domani a Lido di Camaiore, La Prima Estate.
è venuto fuori nel vero senso della parola, da un tam tam su instagram, che in poche ore ha fatto raggiungere il sold out. notare che la signora in questione ha un profilo instagram solitamente chiuso, che ogni tanto si apre per accettare nuovi follower. così, tanto per ribadire quanto essere suoi fan sia un prestarsi al capriccio. un genio (il suo media management staff è il genio). insomma, dal bel mezzo di un centro commerciale (evento epocale nella nostra vita familiare) racimoliamo due biglietti, perché nessuna amica è così sul pezzo da decidere subito, e si va. io e lei.
il concerto.
da un punto di vista tecnico.
il festival deve migliorare. una spianata fronte mare in un giorno di libeccio deve pensare a qualcosa di più sostanzioso dell'impianto che va bene per piazza Napoleone a Lucca, chiusa tra i palazzi. le prime tre canzoni ce le siamo immaginate perché non si sentiva nulla. poi hanno aggiustato un po'.
da un punto di vista sociologico.
il pubblico di Lana del Rey è, ovviamente dal mio punto di vista, meraviglioso. un inno alla fluidità più libera, con una concentrazione di coppie gay e lesbiche che se ci fosse stato un seggio lì la Meloni avrebbe preso lo 0% per cento. in generale uno show off di unicità fantastico, pizzi, coroncine di fiori, maglie a rete, calze e bikini che non vedevo dai tempi di Madonna (e chi ha la mia età sa quanto Madonna sia stata formativa, da Into the groove in poi, almeno fino al 2000). età media tra 20 e 30, con qualche genitore non troppo spaesato a accompagnare i più piccoli.
un problema per me, che volevo farmi un'idea dell'artista, è stato che impianto leggerino da una parte e fan sfegatati da un'altra, ho dovuto spostarmi tre volte per sentire Lana invece della ragazza romana che cantava a squarciagola (e le sapeva tutte).
da un punto di vista scenografico.
lo show è uno show. nulla di sensazionale come light design, ma molto teatrale, con scene che giocano sugli stereotipi della femminilità e i suoi attrezzi iconici: la seduta alla toelette con le ballerine che acconciano la star; il pezzo in cui Lana del Rey canta sdraiata sul pianoforte; il gran finale sull'altalena; un cambio abito in scena dentro una cabina prova di stoffa, che mi ha fatto impressione perché mille anni fa me lo ero immaginato per una messa in scena di Bocca di Rosa per un gruppo omaggio di De André (niente di geniale si dirà. ovviamente. mi ha colpito l'essere poco originali allo stesso modo).
da un punto di vista video.
le immagini che scorrono su un grande schermo dietro Lana sono un bellissimo inno agli Stati Uniti e alle sue contraddizioni, con una iconografia che oscilla fra New York (lei è dello stato di New York, ha vissuto nel Bronx e a Brooklyn, ma c'era molto Coney Island, e la New York dei newyorkesi, il mare affollato, il grocery shop e il benzinaio) e la Miami delle palme e del lusso precario, la California dei tantissimi richiami (ma nel colore) al cinema anni Quaranta e Cinquanta delle dive da film noir, fatali e disilluse, con la luce che passa dalle tapparelle netta e spezzata come in un quadro di Hopper. se Del Rey deriva dalla voglia di un sapore ispanico conosciuto in Florida, Lana secondo me non è proprio ignaro da memorie cinematografiche (la pettinatura per anni è stata l'onda di Veronica Lake).
da un punto di vista musicale.
Lana del Rey ha una voce non stentorea ma molto precisa (ha cantato a cappella Salvatore, richiesta dai fan italiani, nella sua vera o presunta svampitaggine non ne ricordava tutte le parole, ma le note quelle sì, proprio bene). è intonatissima. i testi sono forti, nuovi, non banali, cattivi di una cattiveria puramente femminile, struggenti. le scelte musicali spaziano in un ampio range di riferimenti (di sicuro diversi album per album, ma io ho avuto il primo approccio a un concerto).
follow up.
per buona parte dell'estate, andando su è giù verso il mare, abbiamo ascoltato in auto Lana del Rey, prima canzoni singole, poi album interi. anche a casa, facendo quelle cose che faccio d'estate, come sistemare armadi e librerie, l'ho ascoltata molto, anche da sola. Oh my God, se mi piace.
la mia top five potrebbe essere Summertime Sadness, Young and beautiful, Hope is a dangerous thing..., Ultraviolence, Bartender.
certo non posso chiamarla "mama" come fanno i suoi fan, perché è del 1985.
per me è una sorella minore.
La linea verticale
di Mattia Torre, libro di Baldini e Castoldi, 2017, serie tv 2018 per Rai 3, con Valerio Mastandrea, Greta Scarano, Giorgio Tirabassi, Paolo Calabresi, Babak Karimi.
complice il caldo e la mia insofferenza, in due sere ci siamo visti questa mini serie del 2018.
scritta e diretta da Mattia Torre e interpretata, oltre che da un grande Valerio Mastandrea, da tantissime facce assai note del cinema romano e italiano.
ma trattare il tema di tre settimane di degenza ospedaliera per un’operazione di tumore, dipingere la fauna e il tempo rarefatto di un ospedale che sembra finto (anche se è vero, ma temo sia stato così per poco) è un dono.
Torre era davvero un grande autore.
usare il surreale e il grottesco come antidoto a quando il dramma rischia di diventare melodramma.
così diventa duro come una barzelletta.
Le introduzioni "lette" a ognuno dei brevi capitoli di questa serie sono minuziose e pungenti, e si accompagnano alle immagini contraddicendole, rafforzandole, rendendole ironiche.
Da esagerazioni continue, Torre riesce a far uscire al massimo il senso di sospensione che si ha in ospedale: il non saper chiedere e il non capire, la continua mancanza di informazioni chiare che un po' i medici usano, oscillando fra dire banalità e parlare da iniziati, un po' i pazienti vogliono, per poter sempre lambiccarsi su una possibilità.
la strana confidenza che instauri con chi non conosci, ma conosce i rumori del tuo corpo, chi ti vergogni di abbracciare, ma che a l'unico che c'è a portata di mano.
Un'atmosfera finta, un mega ospedale (l'Ospedale del Mare di Napoli), nuovissimo, senza una scritta sul muro nè una macchinetta che non funziona. Abiti di colori smussati e irreali. Perché in ospedale è tutto finto: la mancanza di differenze sociali fra i pazienti, il tempo, il giorno e la notte, il cibo.
Perché, in fondo, finché si è in ospedale si cerca di rendere finta anche la malattia. Solo quando si esce diventa vera, quando deve conciliarsi e andare a braccetto con la vita reale.
Da vedere.