"alberta"

Alberta cucina bene. Cucina di rado, solo quando ci sono ospiti, altrimenti si mangia un panino in piedi o salta del tutto. Quando studia perde il senso del tempo, e si muove verso le quattro del pomeriggio a cercare un cracker o un pezzo di pane.

Nel grande pranzo di Natale, dove ai venti commensali fissi se ne aggiungono sempre tre o quattro momentaneamente sprovvisti di famiglia con cui andare d'accordo, si prodiga in tour de force di poche ma prelibate portate, senza esitare di fronte a creme di tartufo bianco sull'arrosto o al timo a pioggia sopra tortelli al burro.

Di solito cucina velocemente, perché allestisce cene con preavviso di mezz'ora. Se qualcuno chiama per chiedere un consiglio pratico, quale analgesico, quale ospedale è migliore per quel famoso intervento da fare, finisce per parlarle dei fatti suoi, e a un certo punto si invita. Nessuno le chiede come sta. O se ha rilavorato tutto il giorno senza staccare dalla notte.

Una delle cose che le ho visto preparare spesso, in occasione di queste cene velocissime, e sempre molto chic, sono le torte salate, di verdura. Che io replico spesso, per cene altrettanto veloci e a colpo sicuro, sempre dedicandole un pensiero riconoscente.

Più volte l'ho vista arrivare con i suoi passi piccoli e veloci e appoggiare sul tavolo gli ingredienti, appena comprati, senza mettere a posto il contenuto della busta della spesa, sapendo che tutto le servirà di lì a poco. Ogni volta compra tutto, non avendo tempo di pensare se in casa possa avere già il burro, o la noce moscata.

Si mette a sbucciare e tagliare a rondelle fini le cipolle bianche, quelle che fanno piangere, o i porri (meglio); mentre le cipolle sfumano nell'acqua con un filo d'olio, fino ad ammorbidirsi, appena imbiondite, scalda in una padella con un'unghia di burro gli spinaci, comprati già puliti e cotti. Fa bollire in poca acqua salata gli asparagi o i carciofi, quando ci sono, lasciandoli sodi, dato che dopo avranno un'ulteriore cottura. Oppure taglia a pezzi grandi i funghi porcini, quando li trova freschi, facendoli appena scottare con olio e nepitella, e uno spicchio d'aglio intero schiacciato in un gambo.

Alberta mi ha insegnato ad aiutare chi cucina facendo poco e nulla, ad accettare velocemente le istruzioni ("mi sposti la padella delle cipolle sul fuoco piccolo?"), interrompendo il discorso ma senza perdere il filo, finché non c'è più bisogno di interrompersi e basta un cenno del capo e degli occhi ("sì, il sale ce l'ho già messo io"). A non intralciare. E a non imbarazzarsi o confondersi cucinando con qualcuno accanto, quando non c'è il tempo di far trovare all'ospite la tavola già pronta. A prendere il momento della preparazione di "qualcosa da mangiare" come il tempo della più intima confidenza, quella che si interrompe quando gli altri arrivano. Mi ha abituato alla modalità della cena tra amiche, benché sia molto più grande di me, e, a ben guardare, pure una parente.

Mentre la verdura cuoce, unge di burro le teglie. Ricordo una volta che infornammo un vassoio di metallo, in mancanza di meglio, e poi dovemmo grattar via la vernice che si era staccata, tanta era la foga con cui avevo voluto cucinare in quella mattinata di luce invernale abbagliante e malata. Accende il forno al massimo, stende la pasta sfoglia già pronta, gratta tantissimo formaggio, di qualsiasi tipo, cosa è rimasto in frigo va benissimo. Nella stessa padella di cottura delle verdure, dopo aver scolato l'acqua rimasta, aggiunge la besciamella già pronta, il formaggio, un tuorlo d'uovo per ogni torta, lasciando da parte i chiari. Una spolverata di noce moscata. Anche nella torta di spinaci, lei mette la besciamella, ed è difficile sostenere che con la ricotta è meglio.

Versa l'impasto nello stampo, richiude la pasta sfoglia per evitare che, gonfiandosi, il ripieno esca fuori. Con gli avanzi della pasta, se ci sono, taglia delle striscioline che usa per fare le decorazioni come su una crostata. Passa con un dito l'albume sulla pasta, per far prendere un bel colore dorato durante la cottura. E mette tutto nel forno, abbassando a una temperatura comunque alta, e in venti minuti al massimo gli sformati sono pronti.

Sarebbe inutile pretendere di sapere da Alberta il tempo di cottura, o la temperatura precisa del forno. Non usa sempre lo stesso. E' talmente abituata a cucinare nelle case altrui che anche a casa sua improvvisa. L'essenziale è ottenere lo stesso risultato, perfetto, a prescindere dalle condizioni di partenza, nel minor tempo possibile. Nessun paziente in fin di vita è lo stesso; nessun incidente è lo stesso, nessun corpo è lo stesso. Il risultato può essere uno solo, altrimenti non vale niente. Il tempo deve essere semplicemente il minimo.

L'ho vista cucinare nelle diverse case di sua figlia; nell'attico di sua cognata, casalinga di lusso impegnata a cercare improbabili complementi d'arredo; o nella casa di un'amica che dorme dopo settimane insonni, e che a cena avrà bisogno di raccontare la fine di un matrimonio senza sperare in una voce di falso conforto. O a casa di mia madre, mentre non mi perdeva d'occhio un minuto.

Mi ha insegnato a usare la casa come una casa, un posto dove ci sono cose che servono e persone con cui in quel momento c'è bisogno o voglia di stare insieme. E a sparire, subito dopo, senza lasciare tracce. In ogni casa Alberta capisce dove possono stare i coltelli o i canovacci. In ogni casa vede l'ordine o il delirio, la pulizia o lo sporco. Non giudica mai, e non sposta niente. Le prime volte la guardavo stupita, abituata a mia madre, per la quale sarebbe un sacrilegio avere qualcuno che prepara cibo al suo posto, peggio ancora in sua assenza.

Appena ha infornato le torte salate, Alberta pulisce il piano di lavoro, mettendo la sporcizia nella stessa busta che conteneva la spesa, così da evitare per la seconda volta di far vedere che si china con difficoltà. Sciacqua le poche pentole che ha usato.

Alberta è una donna dura. Si è sempre fatta vedere così. Ha sempre accompagnato una disponibilità estenuante a una severità di giudizio implacabile. E' uno di quei dottori che preparano al peggio, che non indorano la pillola, che anche quando risolvono casi complessi, a nessuno vien facile salutare. L'esperto che amici e parenti chiamano nei momenti di bisogno, senza preamboli, anche dopo anni di silenzio, quando non ha senso o non c'è tempo per riprendere il filo di un discorso interrotto.

Con le sue piccole mani nodose e un po' chiuse, mette in tavola una tovaglietta, qualche tovagliolo di carta, un vassoio con vari formaggi assortiti, un po' di pane scuro, due o tre finocchi a spicchi e qualche carota sbucciata. A volte un po' di bresaola con la rucola o olive e acciughe marinate comprate dal pizzicagnolo chic di un corso di Milano o nel supermercato della periferia ferroviaria di Genova Piazza Principe.

Mi sono sempre chiesta quanto sia stanca mentre cucina le sue torte di verdure, quanto abbia guidato con la sua utilitaria scassata e col bollo scaduto, lei che a forza di turni di notte guadagna un sacco e ha anni di ferie accumulati. Da quante ora non dorma, o quanti anni avesse chi ha visto morire oggi. Come faccia a ripartire dopo ogni giorno. Se si fa una doccia in cui si lascia scorrere addosso la giornata. A chi racconti il suo, di cuori spezzati, o i suoi, di problemi col capo (anche da primario si hanno i capi).

Sento la sua voce allegra nel colto turpiloquio frequente nei chirurghi che risuona alle sette di sera di una cucina di design, mentre aspetta che ritorni alla spicciolata la famiglia di cui è ospite, sfoderando una memoria migliore della mia nei verbi latini irregolari che tormentano il ginnasiale di turno. Oppure la voce più seria e bassa, risoluta nei consigli, quasi come fossero prescrizioni mediche ("ora tu vai dal parrucchiere, ti sistemi, e basta, non ha senso che ti lasci andare"), nella sua grande casa borghese, vissuta solo in due stanze e con la coperta sul divano. La voce fulminante sopra le mani che girano velocemente l'impasto, un colpo di fianchi per richiudere il frigo.

Credo che i suoi dolori, nel corpo, da quando era bambina, e nel cuore, in un'improvvisa curva della vita, non li racconti a nessuno. Forse a sua figlia, adesso che è una donna, ma come storie lontane o come un film che si ricorda a sprazzi. Mi sono spesso chiesta se cerchi ascolto nei libri che legge, in quei saggi di psicanalisi che da falsa profana applica a se stessa, o nella storiografia greca che forse le ricorda gonne a kilt e belle speranze.

Quando le torte sono in forno si siede, poggia la schiena, coi piedi accostati e composti nelle scarpe da ginnastica che ha sempre ai piedi. Non ha fatto niente. Ha solo preparato da mangiare. Tutte le parole dette si perdono nell'odore di cotto o all'arrivo di qualcun altro, proprio quando le chiedo "ma, tu, come stai?". Capita così. Tempismo perfetto. Non dice niente. Forse solo una volta mi ha confidato il suo dolore, un lungo abbraccio e un "non ce la faccio".

Da tempo non mangio più con lei, casi della vita. Mi piacerebbe un'altra cena veloce, ora che la vecchiaia sta iniziando ad affacciarsi sulle sue labbra piene, dal rossetto scuro, o sui suoi seni liberi da sessantottina di buona famiglia. Per me è sempre stata una vestale del dolore, per mestiere, forse per destino, di sicuro per scelta. Mi piacerebbe risentire la sua voce in quella mezz'ora di cucina, ora che esser diventata nonna l'ha rifatta ridere.

Magari potrei cucinare io.

 

[2014]