Anna
La salsa dei crostini di mia nonna è famosa nel mondo. Quantomeno, la sua fama ha varcato, per i più svariati motivi, gli Appennini e l'Atlantico. Che non è poco.
In Toscana, la salsa dei crostini, senza ulteriori specificazioni, è quella di fegatini, antipasto canonico di pranzi "di terra", un tempo riservata a occasioni importanti, soprattutto al Natale.
Mia nonna l'ha a sua volta ereditata dalla generazione precedente, e l'ha tramandata con quelle varianti che figli, suocere e storie varie le hanno pian piano suggerito o imposto.
Tutti sanno fare la salsa di crostini, anch'io, discretamente. Ma non è quella.
Gli ingredienti li conosco: tre o quattro fegatini di pollo, una grossa cipolla rossa, una costa di sedano, un ciuffo di prezzemolo, sette o otto filetti d'aggiuga, un pugnetto di capperi sott'aceto, una quantità indefinita di burro. So pure l'ingrediente segreto, quello spicchio di mela che serve per togliere "il forte" del fegato.
Quando erano i suoi genitori a fare la salsa, usavano mettere anche un po' di milza, poi abolita per adeguarsi al gusto di mia madre e mio zio, nell'era di passaggio da vita sostanzialmente di campagna a boom economico di periferia.
Tante volte mi ha raccontato quello che le ho visto fare anch'io, sul fornello piccolo e discosto dagli altri mobili bianchi di formica. Già con la voce un po' ripetitiva dei vecchi, ma lusingata dal fatto che le avessi chiesto la sua ricetta. Per prima cosa i fegatini, lavati e puliti, vanno messi in un pentolino, a "caldellare". Cioè a prendere quel primo bollore, a fuoco vivo, che fa uscire il liquido, l'amaro. E poi bisogna lasciarli scolare in un colino.
Nel frattempo, l'uomo di casa fa il battuto. Negli anni Cinquanta, l'uomo di casa si siede e mangia, possibilmente lamentandosi di qualcosa che non va nel cibo sempre uguale e sempre coi soliti difetti; non c'è ancora la moda di divertirsi a fare i gourmet, dicendo che i grandi chef sono uomini. Non c'è tanto da fare gli chef. Si mangia quel che c'è, la carne ai bimbi.
Non so se mio nonno facesse il battuto quando era giovane, o se piuttosto il compito non spettasse a suo padre. Nei miei ricordi mio nonno era già in pensione, e quello era uno dei suoi compiti, e, come spesso succede con le memorie infantili, si tende a pensare che sia sempre stato così. Però vedo ancora la mezzaluna che trita le verdure su un tagliere scavato dall'uso, con il legno grattato e spelacchiato, impregnato in un eterno odore di cipolla. Tritava la cipolla, e il sedano, prima liberato dai filamenti più grossi, in pezzi abbastanza grandi.
Nel pentolino di prassi, di quelli di alluminio, un po' bernoccoluti per l'uso, si mette a cuocere a fuoco dolce, in tre o quattro cucchiai d'olio, la cipolla tagliata, il sedano, si aggiunge lo spicchio di mela sbucciato, un po' di limone, magari la scorza ("tanto poi la levi"), il prezzemolo. Quando gli odori sono appassiti, senza che arrivino a soffriggere, si aggiungono i capperi, strizzati ma ancora odorosi d'aceto. E poi i fegatini interi, con una bella impepata, alzando la fiamma per farli rosolare. Io temo di aggiungere d'istinto un po' di vino bianco, ma dubito che mia nonna lo faccia, se non per qualche moderna variante di ritorno.
Poi di nuovo, si abbassa il fuoco per completare la cottura, breve, per evitare che i fegatini si induriscano. A questo punto si lascia intiepidire per poi tritare tutto finemente. Forse è qui il segreto di mia nonna: non ha un mixer.
O forse il segreto è in quei cinque minuti in cui si imbambola davanti alla finestra di cucina, guardando fuori verso la strada, dove so che un tempo ha visto campi e poi pian piano case e ora un supermercato di rione, dove si ostina, come le sue amiche, a fare la spesa come fanno i vecchi: due cose ogni giorno, almeno si ha la scusa per scendere e scambiare due parole con la commessa, che magari ti frega, però ti chiede sempre come stai. "Di vedetta", incorniciata nelle imposte tinte di quella vernice bianca e lucida che ora nessuno usa più, come la trovo quando sa che la passo a prendere, cappotto e sciarpa indosso da mezz'ora, nella paura di non sentire il campanello (che in fatti regolarmente non sente). E di sicuro sta di vedetta anche quando non c'è nessuno che la sta per andare a prendere, e, in un dopopranzo iniziato a mezzogiorno, si incanta, magari pensando a mio nonno che tritava i fegatini. E non so se lo pensa quando, "occhi a pallino", come ferocemente lo chiamava ridacchiando con le scolare di cucito, le faceva una inesorabile corte mentre lei pensava ai cappotti alla marinaretta ("sai, come i cadetti dell'Accademia, così belli, fini…"). O se lo pensa negli anni in cui era a casa poco, tra un carico e l'altro da camionista, assente tra due figli litigiosi, due suoceri incombenti e la sua troppa bellezza da portare in giro, sempre nervosa. O se lo vede già incurvato e rosso in faccia dietro i suoi occhialoni a televisore, da miope, del periodo in cui io e mia cugina lo seviziavamo per ore giocando a fare le parrucchiere. O magari alla fine, quando quegli incarichi erano i pochi momenti di guizzo, oltre alle partite di calcio con la radiolina all'orecchio nel religioso silenzio della "stanza dei bimbi"; o tutto insieme, in un mescolio difficile da seguire.
A far venire così buona la sua salsa devono essere quei cinque minuti di sguardo fuori dalla finestra, un tempo magari sogno arrabbiato di una vita "alla Liala", poi ricordo, poi anche mistificazione, come è giusto che sia. E deve essere quel sospiro sonoro che fa quando si riprende, che non è un modo per sottolineare chi sa quale malessere, ma un respiro per ripartire, nemmeno fosse una maestra di yoga. Perché, ora che c'è solo lei a far la salsa di crostini, incarico esplicito dei pranzi natalizi, mia nonna riparte. Magari borbotta che vivere non ha più senso, che sta rimbecillendo e che è solo un fastidio per tutti, ma intanto trita. E forse nel frattempo le viene in mente di quando a quattro anni le dissi che se aveva problemi con nonno a me ne poteva parlare, nella mia precoce fase di attrazione per la professione analitica. E trita. Oppure si ripete quando mia cugina le disse che di sicuro sarebbe morta prima di nonno perché era "frolla" ("oh, tanto frolla non dovevo essere perché sono sempre qui, o allora, guarda, ma dimmi te…"). E trita. E le dita passano sulla mezzaluna per rimettere sul tagliere le parti non tritate. Dita un po' rapprese, ma ancora bellissime, che ho visto sciupate solo dall'ago di quando cuciva, di quando faceva "le levatine" alle quattro di mattina per finire gli occhielli. E quelle unghie, di un ovale perfetto, che non hanno mai visto smalto, che ha preso mia cugina, non io.
E quando ha finito di tritare la nuvola è passata, borbotta di nuovo come fare una ricetta che sa fare a occhi chiusi, rimette tutto nel pentolino, aggiungendo le aggiughe, che rendono inutile il sale. E a fuoco bassissimo gira finché la salsa non diventa omogenea, sciolta dal calore. Spegne il fuoco e aggiunge una quantità indegna di burro, quasi un etto. E continua a girare.
Ipocrisie dietetiche hanno trasmesso versioni con burro in modica quantità, o margarina che sia. Ma mi sa che qua sta il secondo segreto della salsa dei crostini di mia nonna. Quel che ci va ci vuole.
Anzi, me la posso immaginare che, a forza di sentirsi ripetere di colesteroli e ingrassamenti vari, magari ci mette 110 grammi invece di un etto; così, un po' a spregio, tanto per il gusto di fare di testa sua. La stessa Anna che, a tre anni, immobilizzata su un tavolo in mezzo a una sala pulita a lisciva, al grido di "allora mi voglio movà", se ne scese allegramente, pesticciando con raddoppiata soddisfazione. Un gene di sana affermazione, da testa dura, che crescendo apprezzo sempre di più, anche se nei miei cromosomi si è un po' annacquato.
Sui crostini della salsa dei crostini, poi, ci sono varie scuole di pensiero: il ramo fiorentino della mia famiglia bagna il pane nel brodo, mentre quello livornese mette la salsa su fettine di frustina, magari passate in forno se la giornata è così sciroccosa da far diventare gomma anche il pane fresco. Per me i crostini sono sul pane abbrustolito.
Posso mangiarne una quantità imbarazzante. Se una domenica sera a cena da sola, arrabbiata e delusa di quella solitudine, mi avvento sulla salsa di crostini di mia nonna, a spregio, mentre mi passa la fame, mi vedo davanti gli occhi verdastri e un po' svagati, i capelli ormai tutti bianchi e ostinati contro ogni piega, e la testa che si inclina di lato. "Dai retta a me, gli uomini, mandali altrove. Se vanno bene, bene, se no, hai studiato, sei indipendente, sei sempre a giro, puoi vedere tante cose belle e lontane. Mandali altrove". E in quella massima esistenziale, tra leopardiane dichiarazioni di fascino per il lontano ed esortazione cocciuta e femmisteggiante, chissà da dove le sarà uscito quell'"altrove", geniale e indefinito modo per chiudere con classe relazioni insoddisfacenti.
I crostini stanno bene con gli affettati, quelli toscani e salati, e secondo me stanno bene col vino bianco, sarà l'acciuga. Ma nessuno è buono come quello della sera di Natale, avanzato, mezzo freddo di frigo, buttato giù con l'ultimo sorso di brut svanito. Rubato di notte dopo aver detto risolutamente che non avrei mai cenato.
Anna Raffaelli Porciatti
4 ottobre 1922 - marzo 2010