Bojana

Mi ha sempre colpito la sua calma. Un po' di svogliatezza, come, senza problemi, dice che è tipico del suo popolo. Bojana sa svegliarsi tardi se il figlio lo permette, approfittando di un giorno di vacanza da un lavoro inventato, geniale come quando si fa quello di cui si avrebbe bisogno. Si beve il caffè, quello lungo, alla tedesca, in mille riprese, come simbolo del lusso di una giornata vuota. Sta in vestaglia fino a tardi, riempiendo di baci e di risate un bimbo che di solito porta all'asilo di fretta, mugugnando contro il marito che potrebbe farlo con calma. E poi si mette a cucinare con la faccia allegra e un po' sbadigliante, come una stiratrice di Degas. Labbra arricciate, naso piccolo e zigomi alti (quasi da russa, se non fosse per il nero di occhi e capelli).

Tira fuori il suo libro di ricette scritte in bella grafia e in diversi alfabeti, l'unico modo per ricordare dosi e sapori di tutti i paesi e gli amici che ha già attraversato nei suoi pochi anni. E nella sua cucina c'è tutto quello che può servire: le spezie greche in odor di Turchia, le farine per il pane scuro del nord Europa, i salumi tedeschi e lo yogurt slavo, solido, di latte di capra, vini italiani e pentole svizzere. Un giorno ha esordito con dolcetti di farina di granturco e feta, per una colazione in mio onore, allegramente incurante della mia sorpresa di fronte a salumi e formaggi alle undici di mattina.

Ho conosciuto Bojana in una situazione sciocca, in una cena tra ignote compagne di remoti colleghi di lavoro, messi sullo stesso binario dal cieco destino dei finanziamenti europei. Non avrei pensato che il mio inglese storpiato dalla poca abitudine potesse tirar fuori così tante parole accanto al suo, perfetto e velocissimo, come parlano veloci, e gesticolanti, gli abitanti del Mediterraneo. Né che tra bigliettini d'auguri e vacanze regalate da compagnie low cost, con lei avrei scambiato dolorosi problemi, pianti di rabbia e complici risate, imparando a dire in inglese le parolacce, e soprattutto la verità, costretta alla sintesi dal mio povero vocabolario.

Bojana ama cucinare, può comprare il doner più buono della città e darne un pezzo al figlio di tre anni, ma si diverte a fare torte spettacolari, a forma di auto, di treno o di farfalla, a seconda delle preferenze del festeggiato, oppure biscotti di dieci tipi diversi, che poi confeziona con gusto per qualche vendita di beneficenza. Ha un cassetto dedicato alle guarnizioni per torte, e forse ha scelto la sua casa perché c'era una bella cucina spaziosa e già arredata, rara in una terra dove la gente sembra nutrirsi in fretta per strada.

Bojana mi ha insegnato molte ricette, perché ogni volta si industria di onorare l'ospite, con l'impegno e la serietà inesorabile della gente che, tra Sicilia e Grecia, ha passato qualche secolo sotto Arabi o Turchi. E forse anche perché, mentre girava impasti, sbatteva uova e tritava cipolle, ci sforzavamo ridendo di trovare la parola in inglese per dire melanzana o prezzemolo, per poi scoprire che il macedone e l'italiano hanno strabilianti somiglianze.

Una volta abbiamo espropriato una cucina e tutto il suo pentolame nascosto, perché lei potesse ricambiare un'ospitalità con una sontuosa cena balcanica, con me che la seguivo come sguattera. Un dolce buonissimo di biscotti spezzati e pesche a spicchi, coperto da crema pasticciera e panna, a freddarsi nel frigo mentre intanto mangiavamo ogni tipo di verdura ripiena, accompagnata da una insalata greca che, da sola, avrebbe fermato una truppa (pomodori rossi, cetrioli, cipolle rosse a fettine, olive nere grandi, feta, origano, olio, abbondante).

Cucinare con lei, o vederla cucinare, è il gusto di vedere come altrove si mettono assieme gli stessi ingredienti per ottenere qualcosa di molto simile, ma un po' diverso. O di come lo stesso piatto venga costruito in terre distanti con altre carni, o altre spezie, perché nessun popolo vuol rinunciare a offrire in tavola il meglio che può trovare.

I peperoni ripieni per esempio. Verdi e rossi, grandi, regolari, più o meno della stessa misura. Si tagliano a metà del lato lungo, ottenendo due coppetta da riempire, una volta tolti i semi e i filamenti bianchi. La carne macinata dovrebbe essere di maiale, o metà maiale e metà manzo o agnello. Si soffrigge la cipolla nell'olio, aggiungendo la carne, che deve appena scottarsi, e poi mezzo pugno di riso per ogni peperone. Il riso si tosta appena, assieme alla carne, così che ne prende il sapore. Si aggiunge sale e pepe, e poi si riempiono i peperoni con l'impasto, e si aggiunge un filo d'olio d'oliva. Devono cuocere in forno in una teglia fonda, per circa quaranta minuti, a temperatura alta. Intanto si prepara la salsa di yogurt (ricordo il suo sconforto nel trovare al supermercato a mala pena una marca di yogurt bianco e non zuccherato, e per di più liquido) e cetrioli, prima tagliati a strisce sottili e lasciati asciugare su un panno, a perdere il liquido per l'effetto del sale, e poi tritati finemente. La salsa fredda, sul peperone rosso e caldo di forno, si rapprende un po' e in bocca si mescola il dolciastro del peperone e l'acidulo dello yogurt, i colori vivaci delle verdure, bruni dell'arrosto, e il bianco del latte. Tutto insieme, tutto quello che la ricchezza di una terra aspra e rocciosa può offrire.

Ma quello che vorrei è imparare a cucinare con Bojana la salsa di peperoni rossi che ho mangiato più volte nella sua casa attuale, in Germania, importata (quasi di contrabbando!) da un paese ancora per poco extracomunitario. Credo che si debbano arrostire i peperoni rossi, in grande quantità (perché dopo tutta a lavorazione resta ben poco), poi pelarli, sminuzzarli con le mani in tante strisce e cuocerli nell'olio d'oliva, con sale e aglio, finché non perdono consistenza in una salsa rossa e deliziosa, che si sposa benissimo coi formaggi. Non credo che sia una ricetta complessa. Ma vorrei imparare a farla per le strade del suo quartiere di Skopje, in quei giorni, all'inizio d'autunno, in cui mi ha raccontato che tutta la città profuma di peperoni arrostiti, in cui le famiglie si alternano attorno alle graticole ridendo e sorseggiando grappa, invitandosi a vicenda a cucinare la stessa pietanza, che dovrà bastare per tutto l'inverno a mettere in tavola il rosso dell'agosto. Vorrei imparare a pelare i peperoni, scottandomi le mani con le donne macedoni, che ancora ricordano con orgoglio come la loro salsa andava a ruba, a dispetto di nutrizionisti abituati a MacDonald, tra i bimbetti americani figli di militari e diplomatici di stanza in quel fazzoletto pacifico durante la guerra. Vorrei imparare a girare nell'olio la salsa fino a vederla rapprendere, come ha sempre fatto di autunno in autunno, sotto gli occhi di una bimba che è cresciuta sotto Tito e una nonna dolcissima, che ha studiato lingue guardando all'Europa dell'ovest come a un luna park, e che ha imparato a gustarsi ogni attimo sotto i bombardamenti, ballando con amici che sapeva che avrebbe potuto non salutare più, a rimandare a domani i problemi seguendo il motto "metti il rossetto e goditi la giornata".

Vorrei vedere cosa vede Bojana quando spalma la salsa rossa sul pane, in una mattina di pioggia tedesca, ora che suo figlio aspetta Babbo Natale e non il Papà Inverno socialista dei suoi tempi e lei ogni tanto entra in una cappella ortodossa e bacia un'icona, anche se festeggia il suo Natale andando al lavoro. Forse capirei se, mentre sorseggia il suo lungo caffé, è stanca di doversi far strada tra la carta bollata di un paese straniero. O se invece se sta solo pensando a come condurre la giornata, pronta a conquistare il mondo, come Alessandro.