"santina"

Fare le braciolette alla messinese è un'impresa che, per una donna toscana, ha dello stupefacente. Forse perché si usa carne sottilissima, e qui bisogna rassegnarsi a quella del carpaccio, perché nessun macellaio farebbe mai una fettina abbastanza fine. A me, più familiare alle misure della bistecca alla fiorentina, già questo crea un senso di esotico. Ma soprattutto è sconcertante il tempo che s'impiega, e che sembra presupporre ritmi da casalinga, magari anche una preparazione collettiva e quasi seriale da parte di più di una donna di casa, fatto di per sé altrettanto insolito. Un tale gineceo, se gerarchicamente composto sotto la guida di una mater familias nelle calure siciliane, si presterebbe facilmente, in latitudini toscane -complice la ripetitività- alle frequenti e rinomate risse verbali tra donne di famiglia.

Le braciolette alla messinese richiedono carne da carpaccio, olio, prezzemolo e aglio tritati finemente, formaggio saporito (come una provola abbastanza tirata), pan grattato, una quantità di tempo inversamente proporzionale all'attimo in cui questi bocconcini verranno mangiati, un tavolo e una sedia. Più volte mi sono ostinata a prepararle stando in piedi, lavorando al bancone accanto ai fornelli, e il mal di schiena è quasi sicuro.

Ho imparato a farle, dopo averle mangiate con incurante velocità, in Sicilia, anzi, vicino a Messina, che è una Sicilia strana, poco opulenta, barocca solo nella festa per la Madonna di ferragosto.

Si prepara un impasto di pan grattato, olio di oliva, aglio e prezzemolo, niente sale, un po' di formaggio grattato finemente. Lo si gira con le mani finché non forma un insieme uniforme che si sgrana ancora sotto le dita, ma che si appiccica alla carne. Si taglia la fetta di carne in quadratini regolari, di cinque o sei centimetri di lato. Più piccoli sono, più la cuoca si merita tacito riconoscimento. Si taglia a cubetti piccoli la provola.

Presumo che ogni donna abbia un suo segreto aggiuntivo: si può aggiungere un pochino di peperoncino (ma poco), oppure semplicemente scendere dal macellaio, che le vende già pronte (non più a nord di Reggio Calabria). Io le ho viste fare così, senza aggiunte, da una sessantenne perennemente vessata dall'emicrania, seduta sui suoi fianchi larghi sotto un patio agostano, con la testa fasciata in un improvvisato turbante bagnato verde smeraldo. Non avrei mai pensato che aiutare in quell'impresa, avviata mentre il resto della casa dormiva nel dopopranzo delle quattro (abitudine allora a me ignota, e poi affettuosamente mutuata), mi sarebbe costato il lungo bagno del pomeriggio.

Una volta che tutti gli ingredienti furono pronti e a portata di mano, Santina mi fece vedere al rallentatore come mettere un pizzico dell'impasto di pane in mezzo al quadrato di carne, seguito da un cubetto di provola, poi come chiudere su se stesso il bocconcino di carne, prima di rivoltarlo di nuovo nell'impasto e di infilarlo su uno spiedo.

Una bracioletta è uno spiedino. Per fare una bracioletta ci vogliono dai dieci ai dodici bocconcini. Si contano due braciolette a testa come minimo. Prevederne tre non è affatto peregrino.

Appena capito che ero in grado di proseguire da sola, Santina riprese il suo ritmo abituale, strabiliante. Strabiliante da questa donna che avevo sentito descrivere come una malata cronica, per lo più immaginaria, che scandiva le sue giornate con gli orari di pillole dalle funzioni opposte l'una all'altra, presumibilmente del tutto inutili. Che con me, poco pratica dell'uso comune di trattarla come una bimba golosa di dieci anni, citava Omero studiato quando faceva Lettere, o mi raccontava gli scavi visti mentre insegnava sulle isole, in anni di una gioventù che non sono mai riuscita a immaginare.

Cucinare in Sicilia, d'estate, all'aperto, insegna come si debba a essere svelte a scacciare le mosche che arrivano subito, come anche le vespe, se appena c'è frutta in giro. Vedo le sue mani svelte, dalle unghie curate e dall'ossatura minuta, che fa quasi credere alle foto del matrimonio, a dispetto della mole attuale che le vieta i bagni e quasi di camminare sulla sabbia. Boom economico e una bella ragazza pienotta e di statura piccola, attaccata a un omone che il padre le aveva assegnato per marito. Capo inclinato e occhi brillanti, lontani dallo sguardo di soddisfatto di un mezzo seminarista ben accasato.

Fare le braciolette è ripetitivo, dopo un po' le mani prendono il ritmo, si smette di pensare se si è messo il cubetto di provola o no. Ma la testa rimaneva bassa, e sentivo solo la voce un po' smozzicata, di un siciliano altalenante tra i due corni dell'isola, con lontane tracce si quel siracusano spagnolesco ("iò" invece di "io") che ho imparato a distinguere solo dopo anni. Allievi devoti e tagli cesarei, che non avevo mai visto sfoggiare a un'ospite di recente conoscenza con tale disinvoltura; e la stessa disinvoltura delle battute salaci e difficili, a volte anche un po' sconce, strane per chi rammenta santi e madonne a ogni piè sospinto.

Fu un pomeriggio strano, in cui vedevo affiorare a sprazzi, quasi di nascosto a se stessa, di certo di nascosto al resto di un'astiosa e malevola famiglia, il carattere astuto di una donna che un male piccolo e un po’ di ignoranza condannato a esser scema. Il dubbio che si fingesse così, perché aveva iniziato a farlo ed era diventato più semplice per tutti. O che invece davvero fosse un'incombenza pesante per chi le stava accanto, sempre in bilico tra un bruciore di stomaco e un'altra fetta di cassata, tra prepararsi per uscire e disdire una cena, per il gusto di far davvero la malata a chi le rinfaccia di essere una bimba bizzosa che cerca attenzioni.

Infilava le braciolette sugli spiedi, accumulandoli l'uno sull'altro, coprendo ogni volta con un panno il vassoio (la "guantiera": ci ho messo giorni a capire il senso, e l'etimologia, di quell'espressione). Ogni tanto si fermava, si accendeva una sigaretta di quelle superleggere, da cui però toglieva il filtro, e che mangiucchiava più che fumare – una delle tante presunte cure a uno a scelta dei suoi mali, che un qualche sedicente genio della medicina le aveva suggerito.

Ho frequentato abbastanza a lungo Santina, in poche, concentrate e pesanti occasioni di vacanza, sempre più spesso mangiando braciolette comprate dal marito, che forse non aveva più voglia di star giorni a sentirsi rinfacciare lo sforzo della preparazione.

Le braciolette si arrostiscono sulla brace, tenendole appena un minuto per lato; se si bruciano si butta via tutto. Si possono anche fare in padella, con un filo d'olio, e secondo me sono ancora più gustose, basta avere l'accortezza di far aderire bene tutto lo spiedo, per evitare che in parte restino crude. Senza formaggio nel mezzo (ma c'è chi lo mette nell'impasto, e io che lo adoro non posso dire che ci stia male), si possono fare anche di pesce spada, e qui davvero ci si deve affidare a professionisti, che sappiano maneggiare le fettine di pesce senza sgranarle.

Io ho rifatto le braciolette spesso, in lunghi e vuoti pomeriggi di sabato, tantissime, in parte subito nascoste nel freezer, per poter sfoggiare la titanica impresa in almeno due occasioni. E in quella cucina solitaria di una casa condivisa, dove la provola era spesso un formaggio qualsiasi e la carne era carpaccio pensato per cene veloci di single dietetiche, risentivo i discorsi di quella Santina lontana, quella della prima estate. Quella che se non le si rispondo subito (parlava a voce bassa, mangiandosi le parole, in una lingua per me allora quasi incomprensibile e sempre, sempre, rivolta altrove), attirava l'attenzione sfoderando il suo vecchio e sicuro francese. Che mi faceva vedere con soddisfazione borsette da sera orrende, rammentando le tre occasioni in cui le aveva sfoggiate (cene di fondazioni bancarie, da amiche mogli di medici zelanti, vacanze sulla neve in cui nessuno sciava). Che mi diceva che stavo bene e non ero più “sciupata” via via che ingrassavo a forza di tre pasti ipercalorici al giorno e una quantità di dolci che non avrei mai pensato di poter mangiare. E nel fare le braciolette, ogni tanto spazientita dalla futilità del tutto, già pensando a quanto avrei dovuto chiamare invano per vedere scendere a pranzo colui a cui le avevo dedicate, a metà tra amore e astio, rivedevo Santina, con lo sguardo altrove, oltre il canneto dei pomodori ai lati del patio. I gesti inamovibili di chi è abituato a sopportare e a farsi sopportare, di chi si sacrifica e rinfaccia, in giri di vite familiari sempre più difficili da staccare.

Non credo faccia più le braciolette, forse nemmeno in quegli anni le faceva più, forse voleva solo sfoggiare la sua bravura e la sua terra a questa bimbetta che veniva di fuori, che si voltava stupita allo stesso modo di fronte al profilo dell'isola di Vulcano la sera, alle tavole imbandite per paesi interi, alle vetrine cariche di gioielli d'oro giallo, al teatro di Taormina e ai modi familiari e cattivi di dire a una donna di star zitta. Forse cercava una complice, una nuova possibilità, occhi nuovi che la vedessero come la bambola di uomini pratici, abituati a case intestate e confessioni. Pian piano è stato più facile deriderla come tutti o additarla come causa di tutti i mali, le sofferenze e le immaturità. Soprattutto è stato più facile dimenticarla e tenerla fuori dalla mia vita, dove le donne rispondono, soprattutto a chi dice loro di star zitte. Ma non riesco a dimenticare quell'"ecoute moi" di Santina, mentre infilava le braciolette.